È tornata Nadia Terranova. È tornata in libreria, per traghettarci ancora verso la sua natìa Messina. Con Trema la notte, il suo nuovo romanzo per Einaudi Stile Libero.

Barbara e Nicola, una giovane donna con il destino già scritto dalla penna del padre e un bimbo vittima di una madre ossessiva e perversa, dopo il terremoto di Messina del 1908 perdono tutto. La casa, la famiglia, il loro stesso nome. Tra le macerie, devono i fare i conti con la distruzione di quel mondo antico che era stato dimora ed era stato prigione. Tra le macerie, fanno una scoperta bella e spaventosa: quando siamo nessuno, quando ci viene data la possibilità di ripartire dal grado zero di noi stessi, possiamo essere chi vogliamo.

Sei tornata a Messina.

Si torna sempre sul luogo del delitto, no?

Ma perché proprio con il terremoto del 1908?

In Addio fantasmi c’è una pagina dedicata a quel terremoto e ricordo che dopo averla scritta ho sentito il desiderio di scavare in questa ferita. Con una storia diversa, però: non con una famigliare come Gli anni al contrario, né con una intimista come Addio fantasmi. Volevo tornare a Messina con una storia dal respiro comunitario.

Da un punto di vista storico quanto c’è di reale?

Tutto. Dal giro di Roosevelt alle parole di Giolitti. Mi sono documentata per anni prima di cominciare a scrivere.

Le storie di Nicola e Barbara quando sono arrivate, invece?

Studiando, ho letto dei marinai russi santificati come eroi senza macchia. Per carità, nei giorni dopo il terremoto hanno aiutato Messina in modo incredibile, ma c’era qualcosa che strideva, in queste ricostruzioni. Si diceva che le donne messinesi erano impazzite, che si buttavano ai piedi dei marinai, e qualcosa non mi quadrava. È stato allora che ho immaginato la storia di Barbara e della violenza perpetrata dal marinaio russo.

Per le circostanze del tempo, Barbara vive la propria vita da personaggio secondario. Il terremoto, però, le dà la possibilità di prendere in mano la sua stessa esistenza ed emanciparsi. Eppure, lei non è una femminista.

Sebbene io sia femminista, certe cose di questa nuova ondata di femminismo non mi piacciono. Una tra tutte: l’individuazione di modelli unici del passato. Per certi versi penso sia un’operazione sbagliata, che la storia delle donne sia più complessa, sfaccettata. Prima che questa parola esistesse, che acquistasse significato politico, abbiamo avuto diversi sistemi di resistenza da parte delle donne. Elevando a modelli solo quelle riconosciutesi nel femminismo, queste donne vengono automaticamente tagliate fuori. Donne che hanno organizzato la propria vita per lavorare, allevare i figli, gestire la famiglia, combattendo il patriarcato con ciò che avevano.

Barbara è una di queste donne?

Barbara appartiene a questa genia di donne, sì. Con lei mi interessava entrare nella vita di una ragazza il cui scopo non è liberare le donne tutte, ma sé stessa.

E il sisma, per quanto paradossale, questa libertà gliela concede.

Le donne del romanzo dopo il sisma hanno la possibilità di essere libere. Non più legate agli uomini con cui erano sposate, possono essere chi non erano ma avrebbero voluto. Da qui deriva il loro femminismo spontaneo, che le porta a far gruppo e aiutarsi a vicenda.

Nel romanzo la maternità è presente, declinata in modi diversi. Tu sei da poco diventata madre. Le due cose sono legate?

Sì e no, quel che è certo è che desideravo parlare di maternità. Prima di questo ho scritto due romanzi usando uno sguardo da figlia e cominciava a essere un limite della mia narrativa. I limiti in scrittura vanno sempre superati, così ho pensato che per me fosse arrivato il momento di raccontare la maternità. Ora come scrittrice sento di aver potenziato le mie possibilità.

E poi?

E poi, siccome la scrittura è sempre un po’ profetica, annusa l’aria e sa quale direzione stia prendendo la nostra vita pure prima di noi, sono rimasta incinta. È successo mentre stavo scrivendo. Così, quand’ero a metà libro, quest’estate, scrivevo della gravidanza della mia personaggia mentre io stessa ero incinta.

La scrittura è cambiata, quindi? Raccontando di una gravidanza mentre eri incinta, la narrazione si è in qualche modo modificata?

Per certi versi sì: ho pensato che anche raccontare la gravidanza, il corpo della donna, i suoi cambiamenti, sarebbe stato interessante e così ho fatto - in presa diretta, tra l’altro. Raccontavo qualcosa che mi stava succedendo, non che mi era capitato in passato.

La maternità, però, ha preservato il suo ruolo da protagonista.

Sì, e ad avere un ruolo centrale sono le maternità, al plurale. C’è la maternità ossessiva e perversa di Maria, quella mancata di Yutta, l’adottiva di Barbara. Credo che la maternità sia un’esperienza forte non solo quand’è biologica.

I tuoi protagonisti nel terremoto perdono tutto, così hanno la possibilità di rinascere in forme più simili a loro stessi rispetto a quelle in cui erano nati. Credi che dobbiamo perdere tutto per riuscire a ricostruirci come avremmo voluto ma non abbiamo potuto?

Sì, ogni cosa.

È una risposta netta.

È una risposta che non ammette sfumature. Quando arrivi al fondo non devi aggrapparti a quel che ti è rimasto: devi rendere tutto, fino all’ultimo pezzetto. Devi tornare un bimbo appena uscito dal ventre materno, nudo e inzaccherato di sangue altrimenti non puoi ricominciare. Ce lo insegna il ciclo lunare: non c’è luna nuova senza che la precedente sia del tutto sparita: della vecchia luna non rimane niente, neanche uno spicchio. Per questo l’occasione apocalittica per me è stata ghiotta: mi ha permesso di azzerare i protagonisti sotto ogni punto di vista - classe sociale, famiglia, sesso.

C’è però un momento in cui Barbara e Nicola rimpiangono le rispettive vecchie prigioni, spaventati da un futuro ignoto. Come si elabora questo binomio - desiderio di rinascita e nostalgia delle vecchie prigioni?

Eh, non è semplice. La nostalgia di un trauma, di ciò che prima ci definiva, è cosa comune. Chi fa psicanalisi lo sa: si inizia un percorso per disfarsi di quel che ci schiaccia e una volta finito ci si trova a dover gestire una libertà inedita - che può pure spaventare. Diventa tutto una nostra responsabilità, non c’è più il problema a farci da scudo: dobbiamo sbracciarci e lavorare per noi stessi. C’è anche da dire, poi, che spesso ci affezioniamo a quel poco che abbiamo. Se un amore tossico è la sola forma che abbiamo conosciuto ci attacchiamo a quel sentimento perverso per paura di restare senza niente. Il trauma a volte si camuffa da armatura di protezione nei confronti di un mondo ostile.

Le vecchie prigioni di Nadia Terranova?

Per tanto tempo una è stata l’infanzia; stava per esserlo pure letterariamente, da un punto di vista autoriale. Un’altra era l’insicurezza, per un lungo periodo ero dipendente dallo sguardo altrui. Inutile mentirci: è importante, lo sguardo degli altri, specie per chi scrive - scriviamo per essere letti. Ma è importante anche riuscire a mantenere una solida radicalità. Ce l’avevo già ma l’ho capito solo di recente.

I terremoti che ti hanno fatto uscire da queste prigioni?

L’amore in tutte le sue forme. Per i gatti, per Antonio, il mio compagno, per mia figlia. Amare, ancor più della consapevolezza d’essere amati, ci tira fuori di prigione. Essere amati è bellissimo, sì, ma è l’atto di amare il vero motore.

Dopo il terremoto i nomi non hanno importanza e ognuno può essere chi vuole. Reinventarsi è importante? Come si reinventa Nadia Terranova?

Sì, credo sia fondamentale. Non è qualcosa che facciamo scientemente, forse, ma assecondando l’istinto, il desiderio. Come mi sono reinventata io? Chissà, forse attraverso i libri che ho scritto. I miei romanzi scandiscono parti diverse della mia vita.

Racconti un evento catastrofico avvenuto cent’anni fa, ma nelle reazioni dei sopravvissuti si scorge una sorta di tragedia universale.

Era nei miei intenti. Quando arriva un cataclisma, di qualsiasi natura esso sia, come reagisce l’umanità? Come si aggrappa alla vita? Penso si possa trovare una risposta sola, bene o male, perché tutte le tragedie hanno un elemento in comune: l’uomo.

Penso ad Addio fantasmi, dove la tua personaggia fa i conti con le macerie lasciate da un’assenza. E penso a Trema la notte, dove Barbara e Nicola fanno i conti con le macerie del terremoto. Le macerie e la ricostruzione ti chiamano, in qualche modo?

Per me è importante che in letteratura l’invisibile sia sempre molto presente, e l’invisibile spesso si incarna in ciò abbiamo perso - nel rimpianto. A volte, però, anche in ciò che non abbiamo ancora ma che sentiamo nostro - nel puro desiderio.

Due tipi diversi di assenze. Due modi di desiderare.

In fondo, il rimpianto è anch’esso una forma di desiderio: è quello impossibile - tornare indietro, riavere o modificare il passato. Ma una differenza c’è, e per me è fondamentale. Se il rimpianto è un desiderio irrealizzabile è perché nella stessa idea di futuro è contenuta la possibilità di concretizzare i sogni. È l’idea di futuro, basta la sola idea, a convertire il rimpianto in possibilità. Guardare al domani, pur carichi del dolore di ieri, ci dà la speranza che i desideri siano realizzabili. E, insomma, conta altro nella vita?

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