Positivo.

Una parola, otto lettere, quattro sillabe - seguono molte imprecazioni.

Dopo quasi due anni, due lockdown e un numero di tamponi di cui ho sinceramente perso il conto. Dopo tre dosi di vaccino e ventidue mesi di ansie sparse, giorni in cui la mia ipocondria ha avuto il palco della mia mente tutto per sé, il Covid me lo sono beccato pure io. Pensavo di averla sfangata, ma si sa: è quando meno te l’aspetti che ti fregano.

Dicevo, di dosi in corpo ne ho tre e, a dire il vero, mi sentivo piuttosto tranquillo. Come ormai sappiamo, però, o come ormai dovremmo sapere tutti, i vaccini – che Dio li benedica, i vaccini – non sempre prevengono l’infezione. Quel che è certo è che ci tengono lontani dalle terapie intensive e che i sintomi li alleviano, dei gran risultati. Ma queste faccende le lascerei a chi ha studiato. Mi premeva solo sottolineare l’efficacia del mio booster: di sintomi, in effetti, non ne ho avuti – di nuovo, tutti insieme: che Dio li benedica, i vaccini.

Conto alla rovescia

Partiamo dal principio.

È il 31 dicembre, sono le sei del pomeriggio e ho appena ricevuto l’email con l’esito del tampone. Ho già imprecato, ho già avvisato i miei, ho già organizzato la stanza; è un fortino, pare mi sia preparato al disastro nucleare. La finestra è aperta, a tenerla chiusa mi sentirei soffocare. La porta che dà sul corridoio, invece, è sigillata. Sono alla scrivania, fossi rimasto ancora nel letto mi sarei liquefatto. Da una parte tre bottiglie d’acqua, la tazza coi cioccolatini e la solita pila di libri.

Dall’altra il portapenne da tavolo sovraccarico, l’abat-jour e le stoviglie del pranzo. Alle mie spalle il letto sfatto, tra le montagnole del piumone Le correzioni, la libreria in disordine, i libri spuntano dai ripiani come spine di una pianta grassa, e il tablet su Netflix, con The sinner in pausa. Riapro l’email, rileggo, sperando quasi d’aver capito male, impreco più forte. Chiudo, e mi guardo attorno. Ecco il mio mondo per i prossimi giorni, il posto dove finirò il duemilaventuno, le prime cose che vedrò del duemilaventidue.

Cerco di concentrarmi sugli aspetti positivi. Niente mutande per sette giorni. Niente corse folli nel traffico nel tentativo di arrivare puntale a qualche appuntamento. Niente bugie per non incontrare quell’amico che non vedo da troppo; se è da troppo che non ci vediamo un motivo ci sarà, no? Solo film, libri e musica: una pacchia. Sottrarmi al mondo è in effetti un sogno nel fondo di un cassetto mai aperto per paura di guardarci dentro.

Eppure, la stanza mi sembra buia e piccola e ho la sensazione che le pareti mi si chiudano addosso. Tutte emozioni esagerate, lo so, ma il ricordo del lockdown mi appesantisce.

Non fare drammi inutili, Mattia.

In questa situazione ce ne sono centinaia di migliaia in Italia. E tu, tra l’altro, stai bene e non hai da pensare a cosa mettere in tavola. Di sintomi non ne hai, il daffare non ti manca, hai tre piattaforme streaming e libri sufficienti fino a luglio, e puoi lavorare da casa.

Questo mi dico, senza però essere capace di rasserenarmi granché. Avevo parecchie cose da fare e di sicuro così rimarrò indietro con le consegne, non riuscirò a essere produttivo come vorrei, dovrei, non potrò rispettare i piani stabiliti, rallenterò, andrà tutto in malora.

Non fare drammi inutili, Mattia.

La cosa importante, mi costringo a pensare, è che i tuoi stanno bene.

Li videochiamo – io in camera mia, loro in cucina. Come state, chiedo. Bene, dicono, sta’ tranquillo. Così parliamo della cena che, d’altra parte, oggi è il trentuno, è l’ultimo dell’anno, e di solito si mangia a scoppiare. A me però non interessa: sono preoccupato per loro.

E se li avessi contagiati? Se non mi fossi messo in isolamento abbastanza in fretta e dovessero star male per colpa mia? Il pensiero mi tarla il cervello. Se c’è una cosa che il Covid ha instillato in me e in quelli della mia generazione è la coscienza che i nostri padri, in senso lato, siano labili.

Li pensavamo irrefrenabili, ma la pandemia ci ha svelato una realtà tanto ovvia quanto scioccante: sono esseri umani come tutti. E adesso il pensiero che possa averli infettati mi terrorizza.

Non fare drammi inutili, Mattia.

Cetaceo morente

Faccio un giretto su Instagram, che sto usando in modo ottundente da qualche giorno. Mi faccio uno, due, tre cioccolatini, quando sono in ansia mi ingozzo. E accendo il computer per scegliere un film da vedere stasera: serve qualcosa di rilassante. Alla fine opto per Forrest Gump: dura un botto ed è tra i miei preferiti.

Nel frattempo, dietro la porta si materializza la cena. Insalata di polpo, anelli di calamaro fritti, involtini di pesce spada e c’è pure il dolcetto - cassatella di ricotta. Mi strafogo, fumo alla finestra sbevazzando il prosecco apparso col cibo e mi spiaggio sul letto, cetaceo morente. Guardo il film, ma senza vederlo davvero. Dev’essere la paura: ha un effetto anestetico su di me. Mi fa attraversare giorni, settimane come in trance: esisto, e però non ci sono.

Mi sottrae a me stesso e sottrae me stesso al mondo; un senso di straniamento sperimentato già durante il lockdown. In pratica quando la paura si unisce alla cognizione d’essere impotente dinnanzi a un ostacolo, subentra una forza che mi allontana dal mondo. Ed è così che mi sento, lontano da tutti; io che dagli altri mi sono sempre lasciato travolgere.

Non fare drammi inutili, Mattia.

D’un tratto mancano due minuti a mezzanotte. Bussano alla porta. Mi tiro fuori dal piumone e, quando sento i passi dei miei allontanarsi in corridoio e scendere le scale, apro. Altro prosecco, si è materializzato pure lui sull’uscio e mi fissa. I miei in soggiorno mettono la tivù al massimo, Amadeus inizia il conto alla rovescia; che certezza, Amadeus: può cascare il mondo, ma lui sta lì bello e sorridente.

9… 8… 7…

Fisso le finestre dall’altra parte del giardino, sono illuminate a indicare che lì c’è vita ma le persone non le vedo: l’umanità stasera è solo un’idea. Li immagino, i miei vicini, davanti la tivù, ben vestiti, con i bicchieri in mano e i volti sbiaditi stirati in sorrisi incerti. Li immagino felici e mi piace.

6… 5… 4…

Torno alla porta. Ora immagino i miei, in soggiorno, pure loro davanti la tivù: lui con un’espressione imbarazzata, lei gasata. Anche loro l’immagino felici e pure questo mi piace.

3… 2… 1…

Mi scolo il prosecco in un colpo solo. Da un lato all’altro della porta, io e i miei ci diciamo auguri, che il duemilaventidue sarà meglio, ma pare che cerchiamo di convincere noi stessi più che gli altri. Poi loro tornano sotto e io mi metto alla scrivania.

Non fare drammi inutili, Mattia.

Iniziano le videochiamate con gli amici, molti hanno preferito stare a casa con mamma e papà. Ci strappiamo una risata a vicenda, uno dice d’essere ubriaco tosto con genitori e zii, e ridiamo. Avverto una certa arrendevolezza, però, e la cosa mi intristisce.

Prima della pandemia eravamo bestie selvatiche, mentre ora sembriamo mici di casa. In questi due anni abbiamo imparato che su alcune cose non possiamo esercitare alcun controllo, abbiamo conosciuto l’accettazione e l’impotenza - delle lezioni che ci hanno fatto invecchiare più che crescere. E ora semplicemente ci lasciamo trasportare dagli eventi: se così deve andare che così sia. Un pensiero maturo forse, va detto, ma allo stesso tempo deprimente.

Non fare drammi inutili, Mattia.

Concluse le videochiamate, l’una di notte, mi infilo di nuovo nel letto. Il film non lo finisco, non mi va. Prendo Le correzioni, ma le pagine scorrono senza lasciare traccia. Lo chiudo. Fisso il soffitto.

Non fare drammi inutili, Mattia.

E davvero non ne voglio fare, di drammi inutili. So di essere parecchio fortunato, l’ho detto all’inizio. C’è chi a causa del Covid ha perso un caro, il posto di lavoro, chi non si è ripreso del tutto. Sono fortunato, lo so. È che sto qui, nel letto a studiare le travi del soffitto della stanza, e ho l’impressione che il mondo sia così lontano.

Lo vedo attraverso un cannocchiale al contrario. E mi chiedo se sia un mio problema o qualcosa comune a tanti. Mi chiedo - e vi chiedo: dopo due anni di pandemia il mondo lo sentiamo ancora?

 

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