Il Giornale di uno straniero a Parigi in realtà è un romanzo, in cui l’antagonista principale è il tempo. Il libro attraversa una serie di straordinarie immagini: c’è l’idea di trovarsi nel crepuscolo del mondo
«Torno finalmente a Parigi dopo quattordici anni di esilio in Italia. Questi quattordici anni sono stati i più tristi, i più pericolosi della mia vita». Così inizia il Giornale di uno straniero a Parigi di Curzio Malaparte (Adelphi): il diario di uno straniero che non è davvero straniero, giacché per Malaparte la Francia è ben più che una seconda casa: l’ha lasciata, felice, nel 1933, all’età di trentacinque anni; e ora ci ritorna – dopo quattordici anni, un lungo confino a Lipari e una guerra mondiale nel mezzo – pieno d’amore per il nuovo paese e di disprezzo per quello d’origine: «L’Italia è un miserabile paese di schiavi.
Un paese di uomini sempre esposti, giorno e notte, alle peggiori violenze della polizia, della magistratura, della delazione. Che sia Giolitti, o Mussolini, o De Gasperi, lo Stato disprezza il cittadino, la giustizia lo schernisce, la polizia lo minaccia. Che importa se l’italiano è, individualmente, un uomo libero? Se non ha amici potenti al potere, è alla mercé della polizia, della cattiveria, della gelosia dei vicini, della debolezza, della codardia, della corruzione della magistratura, del suo asservimento all’esecutivo e ai partiti. Sono stato arrestato undici volte in vent’anni, in Italia non posso dormire tranquillo da nessuna parte».
Malaparte arriva a Parigi e finalmente dorme tranquillo. Essendo uno fra i cinque o sei scrittori italiani più talentuosi del Novecento, il suo riposo, sia pur a posteriori, ci è caro. Stupenda è la descrizione del suo sonno, dentro cui penetrano dolcemente i rumori della strada «come le api nella cella dell’alveare».
Stupenda la descrizione dei suoi risvegli, delle sue albe: sentore di «pane tostato, di polvere, questo odore tiepido, femminile, di Parigi, che ritrovo stamani, alla mia finestra». Stupendo è il suo tornare ai luoghi di quella che considera la più grande, la più colta, la più importante città del mondo. Stupenda la sua felicità. Ma è davvero felicità, la sua?
Il tentativo
Si dice spesso che non si possa cavare grande letteratura dalla felicità, ma solo dal suo opposto: dal rocambolesco tentativo di raggiungerla. Leggendo questo diario si direbbe il contrario: vediamo Malaparte trascorrere le sue giornate parigine posseduto da una gioia quasi adolescenziale: va a teatro, frequenta i salotti e le cene, incontra i soliti diplomatici e le loro mogli, i soliti scrittori importanti, i soliti argutissimi dialoghi dove è sempre lui ad avere l’ultima parola, la battuta fulminante, il witz che chiude la scena a effetto; lo sentiamo tornare a casa, risalire nel suo appartamento di Rue Galilée, trascrivere su questo diario, che leggiamo, quant’è felice di essere a Parigi, quant’è splendida Parigi; quanto non c’è nessun altro posto dove vorrebbe essere eccetto Parigi.
Tuttavia non ci convince. Non sino in fondo. Si sa che quelli che continuano a ripetere quanto sono felici, quanto sono contenti, hanno sempre qualcosa da nascondere; stanno cercando di convincere e convincersi. No: questo Giornale, come tutte le opere di Malaparte, non è un diario né un saggio: è un romanzo, e come ogni romanzo ha il suo nemico. Ogni romanzo di Malaparte (forse ogni romanzo tout court) è la descrizione di una battaglia, e questo non fa eccezione. Ma se stiamo leggendo di una lotta, chi è il nemico?
Il tempo
Qui, il nemico è il tempo. Il tempo – quattordici anni – che gli ha fatto lo sgarbo di passare; il tempo che gli ha portato via la sua giovinezza rocambolesca e scapestrata; il tempo che separa il 1933 dal 1947, il trentacinquenne dal cinquantenne, lo scrittore innocente da quello colpevole e compromesso, la Parigi speranzosa del 1933 da questa disperante, miserabile, spezzata Parigi del 1947, che finge di essere la stessa Parigi elegante e avanguardistica di allora, ma che quando si raduna nei teatri per le messinscene di Racine la sala puzza di un odore “leoncino”, di corpi sporchi, perché la gente non ha più neanche l’acqua per lavarsi. «Mi sono proposto, tornando a Parigi, di non dare a vedere che mi accorgo che gli anni passano. Ma il tempo passa».
Desiderare, sognare, inseguire la giovinezza: dopo una certa età, forse non si fa altro. Per tutto il libro Malaparte appare come uno che arriva a una rimpatriata del liceo ed è quello che ricorda tutto: gli episodi, gli aneddoti, i nomi dei professori, i singoli episodi; è quello che si affanna per rimettere in atto tutto com’era prima. Si comporta come se la vita dell’Europa nel 1933 si fosse accidentalmente interrotta e ora potesse serenamente ricominciare, come una festa a cui per qualche secondo è saltata la musica.
Capirà solo strada facendo che quella frattura è insanabile; la mutazione avvenuta con i nazifascismi e la Seconda Guerra Mondiale ha modificato il mondo in modo irreversibile. Questo libro è lo spettacolo, grandioso e patetico insieme, di un uomo che comprende che la volontà non basta a far tornare le cose com’erano.
Il tempo è più forte di lui: «Neppure in me c’è più l’ardore di una volta, nessuno ha più l’ardore di una volta, anche questa folla parigina non ha più l’ardore di una volta». Parigi diventa un immenso teorema: la giovinezza non ritorna. Né la sua, né quella dell’Europa. L’innocenza di allora – se mai è stata davvero innocenza – è perduta per sempre.
Le immagini
Il libro attraversa una serie di straordinarie immagini, all’altezza di quelle che il lettore di Malaparte ha imparato ad amare già ai tempi della Pelle: una piscina proletaria, talmente affollata da non poterci nuotare, dove gli operai che non hanno il costume si coprono il pube coi fogli di giornale; il ricordo delle scure farfalle che, sui campi di battaglia, si posano sul viso dei morti; gli incontri indimenticabili con François Mauriac, con Jean Cocteau, con Filippo de Pisis; una riunione di antichi reduci nel mezzo di Place de la Concorde sgomberata dalla polizia: «Addossato a una colonna, io frenavo a stento le lacrime. Fu quel giorno che io sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra». Tutto accade sotto lo stesso segno fatale, sotto lo stesso cupo presentimento di sventura: ci troviamo nel crepuscolo del mondo.
Ha torto, Malaparte, oppure ha ragione? Quante volte abbiamo letto, e quante volte leggeremo ancora, la meditazione di uno scrittore al crocevia fra il vecchio e il nuovo, che nella fine della sua epoca annusa l’arrivo dell’apocalisse? E ogni volta lo leggiamo e ci chiediamo: siamo davvero nella fine dei tempi?
Certo, qualcosa di vero c’è, e Malaparte ha più ragione di altri nel denunciarlo. Il suo diario è costellato di improvvisi lampi di verità: la mutazione genetica dei giovani, la diffusione quasi endemica del socialismo fra le masse, la fine dell’epica e il suo curvarsi nella psicologia, nell’esistenzialismo, nell’individualismo; l’inizio dell’irrilevanza dell’Europa nello scenario mondiale: «Parigi, come gran parte dell’Europa, subisce in questo momento la crisi che l’Oriente ha già subìto: quella del passaggio dal mondo vivo e attivo della storia, al mondo tetro, passivo, rassegnato del fatalismo storico. L’Europa, è evidente, sta diventando un grande paese levantino».
Malaparte ha senz’altro ragione. Eppure nel contempo ha torto: nella sua invettiva c’è qualcosa che non torna, come sempre accade in quelli che, a partire dal proprio dramma personale, deducono grandi verità collettive. È vero: il mondo sta cambiando in modo così profondo che sembra annunciare la sua fine.
Ma non è davvero così: quella che sembra l’apocalisse, è solo una trasformazione, l’ennesima. Ogni generazione crede che la sua fine coincida con la fine del mondo; ma non è mai davvero così. Non è il passato che si rimpiange, ma la propria giovinezza, che in quel passato è stata smarrita, sprecata, corrotta. E ora non si ricorda forse più nemmeno come questo è avvenuto. Ecco qual è il meccanismo tragico di questo romanzo mascherato da diario: il dubbio che forse non era il mondo a essere giovane e innocente: eravamo noi.
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