È comparso di notte. Furono in tanti, poi, a vantarsi di averlo visto per primi: netturbini, fornai, atleti insonni, scrittori divorati dall’ansia. Impossibile dire con esattezza chi, fra le tante anime silenziose che si muovono nell’ora purgatoriale fra l’ancora notte e il già mattina, rimase impalato per primo con lo sguardo in alto davanti al prodigio. Il riconoscimento, perlomeno ufficioso, sarebbe andato ad Anna F. (taccio certi cognomi per pudore di cronaca), una sex worker piuttosto nota in città con lo pseudonimo di Eleusina.

«Tornavo dal club dove lavoro» disse il giorno dopo agli inviati delle trasmissioni per casalinghe del primo pomeriggio, «casa mia non è vicina ma io ci torno sempre a piedi, mi piace, a quell’ora la città è deserta e se sono fortunata vedo già il primo azzurrino dell’alba, così ho alzato gli occhi e l’ho visto».

Dopo un’ora lo guardavano tutti, chi sopra la testa, chi dentro uno schermo. Io stesso l’ho visto prima in foto che nel cielo. Ricordo il momento come se fosse adesso: il vibrìo della sveglia prima ancora di aprire gli occhi, le prime note di The Final Countdown degli Europe, che per vezzo uso come sveglia fin dagli anni dell’università, poi il morso dell’ansia allo stomaco e subito la mano che va al telefono come un riflesso automatico – eccomi mondo sono qui – cos’è successo, cosa mi sono perso?

Rimettermi nel fiume degli eventi, riagganciarmi alla vita degli Altri come un annegato che riemerge all’aria: ora. La foto era già lì, in apertura di tutte le news, ritoccata coi filtri per rendere i bordi più evidenti e i colori più netti. L’ho fissata per un po’ prima di realizzare che la città nominata dai notiziari era quella dove vivevo io; il cielo fotografato nello schermo era il mio stesso cielo. Sono andato alla finestra, ho aperto la tenda. Ed eccolo lì: certo meno nitido che in foto ma molto più grande, anzi sconfinato, ché non si riesce a tenerlo tutto in uno sguardo.

Incombe gigantesco a piombo sui tetti come un soffitto che sta per cadere. È inequivocabilmente la forma di una faccia. Uno smile colossale, piuttosto rozzo – pochi tratti semplici di luce e materia nuvolosa, occhi naso bocca come li disegnerebbe un bambino.

È quasi l’alba. Fuori fa freddo, tanti dormono ancora. Dietro le finestre le prime ombre scostano le tende, aprono le persiane, issano le tapparelle come i mantici di un ponte levatoio. Guardano in alto e restano sbigottiti, con le bocche aperte, con uno stupore da bambini di fronte alla prima neve. Pochi, quando le cose avrebbero cominciato a evolvere nella direzione che tutti sanno, sarebbero riusciti a ricordare quello sbalordimento innocente, ancora così tinto di candore; la sperdutezza del guardare qualcosa di cui non si sa nulla.

Il prima delle conseguenze inevitabili eppure ancora misericordiosamente nascoste. Poi si riparte: la giornata deve cominciare; se in cielo è disegnato un enorme smile è bizzarro, sì, ma non è la fine del mondo. La luce è accesa, il riscaldamento funziona, è tutto a posto.

Inizio a vestirmi, masticando una preghiera tra me e me come chi rumina un’imprecazione. Esco. Nella strada ancora semibuia solo due netturbini, qualche runner, una donna intabarrata nel cappotto con un setter al guinzaglio, unico essere vivente nel paesaggio a infischiarsi dell’evento: tutti gli umani presenti alla scena hanno uno sguardo sospettoso verso l’alto, come nel timore che quel colossale volto di luce sia appeso a un filo, uno spropositato oggetto teatrale pronto a caderci in testa da un momento all’altro.

Celebro la messa del mattino davanti alle solite quattro persone, sempre le stesse: tre anziani – un uomo, due donne – e una ragazza molto grassa con la pelle screziata dalla vitiligine, il suo nome non lo so perché viene ogni mattina alla messa delle sette ma scappa via subito dopo la benedizione. Le due donne anziane parlano ovviamente della faccia nel cielo; una di loro, Loredana, mi chiede se il volto lassù non potrebbe essere per caso quello di san Giuda Taddeo. Le chiedo perché proprio san Giuda Taddeo e non un altro santo, magari più famoso e potente – ogni santo ha un suo portfolio di miracoli, e quello di Giuda Taddeo a dire il vero è piuttosto povero. Loredana mi risponde, col sussiego di chi spiega un’ovvietà a un cretino, che il punto è proprio quello: san Giuda Taddeo per ovvi motivi nessuno lo prega mai – «chi si sognerebbe mai di pregare un Giuda, con la brutta nomea che si porta quell’altro?» –, allora magari ha voluto chiarire l’equivoco affacciandosi in prima persona.

La rassicuro, Loredana: la sua teoria ha senso, teologicamente tiene, ma i santi misteri non comunicano in questo modo. Come se in effetti lo sapessi, io, come comunicano i santi misteri. Per fortuna ormai dopo un po’ di anni il discorso viene fuori da solo, che si tratti di omelie pubbliche o pastorali alle perpetue: il pilota automatico del prete, argomenti semplici e rassicuranti, pronunciati con quel tono premuroso da parroco zelante – una voce morbida da orso dei cartoni animati che il mio padre spirituale in seminario, don Bruno, chiamava con disprezzo “il pretese”, e che quando me la sento in bocca mi vorrei strozzare per quant’è finta.

Poi finalmente resto solo. Le otto, la mia ora migliore: silenzio perfetto e mente fresca. È l’ora in cui vado in palestra, se posso. E faccio in modo di potere sempre. Ognuno ha le sue priorità. Al workout della prima mattina non c’è mai nessuno, giusto qualche manager sperso tra gli attrezzi con le AirPods nelle orecchie che neanche mi vede, assorto in qualche sua intima conversazione con il Business che bofonchia – «spingi cavallo, spingi, spingi, spingi» – e si autoincoraggia con un nitrito equino. C’è odore di amuchina, di plastica e di sali minerali fruttati. La musica idiota della radio mi rassicura. Mi alleno come fosse un esercizio spirituale: l’unico che ancora pratico con metodo e convinzione – tapis, squat, lat machine, panca inclinata, curl, è questo il mio rosario, una ripetizione dietro l’altra. Il mio momento preferito è il plank: a quattro zampe con il corpo a ponte, mi puntello coi gomiti e il dorso dei piedi, vado avanti a tenute di un minuto l’una al termine delle quali è bello crollare con un latrato di petto che almeno fino a domani non potrò più permettermi.

Nelle mie giornate, lunghissime rincorse da una conferenza sul Paradiso di Dante a un’assemblea episcopale, dal funerale di un parrocchiano a un’aula universitaria, dagli studi di Canale 5 per una registrazione di “Eccoci al punto” a un appuntamento con un assessore, sempre in preda ai miei astratti furori mondani, la palestra è l’unico vero momento di meditazione, la mia sola ascesi.

Mentre esco Manuela in reception mi chiede se ho idea di cosa sia quella faccia nel cielo. «È l’apocalisse! » grida ridendo un tizio in canottiera uscendo dallo spogliatoio. Manuela ride. «Magari» dice. «Almeno domani non verrei al lavoro».

Alle undici lezione in università. Normalmente non ci sarebbe posto per sedersi: sono il docente mediatico, il professore famoso, la mia aula da trecento posti sempre piena è il mio maggior orgoglio. Oggi però no: l’uditorio è pieno di buchi. Mi dicono che è per via della faccia nel cielo. Perché mai – chiedo a una vedetta della prima fila –, è una nuvola, non fa male a nessuno. Mi dice che su internet si è sparsa la voce di un’evasione chimica, un qualche indeterminato rischio epidemiologico, a furia di rilanci qualcuno si è allarmato davvero, mamme e nonne sono andate nel panico e hanno pensato bene di suggerire ai loro puccettoni di non venire – «per sicurezza, non si sa mai».

Qual è la fonte della voce? La ragazza si stringe nelle spalle, «vox populi vox dei, prof». Faccio comunque la solita splendida lezione – pochi o tanti per me non fa differenza, studenti, fedeli o casalinghe, quando ho un microfono davanti io sono un attore che va in scena, venti persone o duemila è lo stesso, gioco col pubblico come un attore consumato, alterno i registri come fossero le marce di un’automobile sportiva – affabulazione, ironia, scatto serioso, pausa, citazione a effetto, conclusione. «Tu non sei un prete, Luca, sei un uomo di teatro, un mattatore!» mi dice sempre don Lucio, il rettore dell’ateneo.

È la maschera della mia timidezza, gli rispondo, con tono ironico anche se è la pura verità: io sono uno di quelli che escono terrorizzati dall’utero materno e tali rimangono per tutta la vita, la chiacchiera culturale è il mio attacco preventivo, il fuoco di fila che mi permette di attraversare quel deserto atomico che è il mio rapporto con l’Altro. Lucio no: Lucio è un prete in armonia, con un’identità perfettamente sintonizzata col mondo. Una volta gli ho chiesto come fosse diventato prete – subito dopo l’ordinazione era una domanda che facevo a tutti, prima di capire che destava imbarazzo.

Quando l’avevo chiesto a Lucio lui si era stretto nelle spalle e aveva aperto le mani in direzione di immaginarie indeterminatezze celesti e aveva detto: «Così». La sua era in effetti la risposta standard, per la maggior parte dei preti non ci sono illuminazioni o chiamate dall’alto o metaforiche cadute da cavallo sulla via di Damasco, e in fondo neanche degli straordinari impeti di fede – piuttosto un’imperscrutabile concomitanza di doti caratteriali e infanzie e abitudini e pressioni di genitori e amici premurosi che, in altre circostanze e con minimi cambiamenti di contesto, li avrebbe portati, invece che dietro un altare, alla scrivania di un ufficio notarile o al volante di un autobus. Per molti di loro diventare sacerdoti è stato come fare un concorso alle poste o alle ferrovie. Nessuno ne parla volentieri, e quando proprio ci sono costretti svicolano o fanno battute.

da Il prodigio, Mondadori, in libreria dal 26 agosto


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