«È la quinta volta in due settimane che getto la testa indietro per frugarmi le narici con un bastoncino, su per il setto fin’oltre ai seni, dove alle medie si puntava il dito scoprendo che non è necessario toccarsi per farsi male a vicenda, e basta invece una certa posizione, una certa prossimità. Un dito sospeso – o una penna, un lapis – tra gli occhi, dove si incontravano le sopracciglia che da tempo, maschio millennial, non mi vergogno più di separare con le pinzette. È l’unico punto del corpo penso, almeno del mio, capace di avvertire dolorosamente la minaccia di un altro corpo, estraneo ed esterno. Ho sentito addirittura un formicolio in quel vuoto dentro la testa, dietro la pelle, quando la guardia, all’ingresso dell’ospedale, ha puntato lì il laser del suo termometro, che ora vorrei capace di sondarmi le cavità da fuori, risparmiandomi il necessario fastidio della perlustrazione interiore in cerca di proteine che denuncino la presenza di patogeni. Mi sto infilzando le nari per tornare in quell’ospedale, in visita a una persona cara, carissima, da cui mi separano i giusti scrupoli della nostra povera sanità martoriata. Voglio essere certo di portare con me solo frutta e salviette rinfrescanti, una tregua di creme per la mia congiunta nell’ora, a giorni alterni, in cui posso vederla; nessuno sgradito passeggero virale. E invece, ahimè, non varcherò quella soglia. Perché stavolta, tra dieci minuti, il prodotto della cerca lungo le vie aeree superiori segnerà due linee purpuree sul piccolo totem di plastica candida, marcando entrambe le esoteriche cifre (C, T) in rilievo a destra della striscia di carta. Sono positivo».

Comincia così il pezzo (lo trovate qui) che ho scritto per Cose da maschi questa settimana, l’ultima in cui lascio in pace per le vacanze lə ospiti della rubrica e propongo solamente una mia cicalata. Lo ricopio al principio della newsletter non perché il Covid mi stia fiaccando (sono asintomatico, protetto da tre dosi di vaccino, a casa dei miei genitori a Roma) ma perché non so come altro spiegare la ragione per cui mi è parso utile (e al contempo difficile) ragionare, per questo numero, di nasi.

Piero della Francesca, Ritratto di Federico da Montefeltro, immagine da Wikipedia

Le altre riflessioni corporee fin qui comparse su Domani, mie e di altrə, vertevano su tratti più senz’altro legati, almeno nella tradizionale concezione della fisiologia, alla maschilità. Il naso invece ha quartiere in qualsiasi genere o identità umana, ovviamente, pur avendo sempre suscitato fantasie tassonomiche di più o meno conscio razzismo.

Mi è capitato di studiare una novella in versi uscita sotto il fascismo in un giornale per bambini, in cui un’Orca mostruosa si tagliava il gran naso da strega con grosse forbici e poi lo assegnava, per invidia, a un bambino bellissimo di nome Ricciolino, il quale veniva poi scacciato dagli amici e addirittura dai genitori, che non lo riconoscevano.

L’ho recuperata qualche anno fa dall’oblio delle emeroteche per attribuirla a Umberto Saba, il grande poeta ebreo e bisessuale, che non la firmò ma, ritengo, la scrisse. Mi pare che, come tutte le storie geniali destinate a bimbe e bimbi, nasconda in bella vista un’angoscia freudiana. D’altronde il più divino dei poeti della trasformazione e del corpo, Ovidio, lo chiamavano Nasone.

Ecco, anche nel testo della newsletter, come nel pezzo devo ammettere, sto divagando per schivare la ragione intima del mio interesse nasale. La questione è, in buona sostanza, che mi pare di essere diventato visibilmente un maschio quando mi è cresciuto all’improvviso il naso, distinguendomi non solo dalle ragazze ma anche dai ragazzi belli, che erano belli appunto perché ogni lineamento dei loro visi rimaneva piccolo e delicato.

Voglio dire che il mio naso non mi è mai piaciuto, mi è sempre parso anomalo, troppo grande, e fatalmente impossibile da nascondere, come quello di Pinocchio.

Ho imparato recentemente da un post divulgativo di Francesco Cicconetti che simili paranoie afferiscono alla dismorfofobia, un disturbo che si tende ad attribuire alle donne o a confondere, nelle persone trans e non binarie, con la disforia di genere.

Già sapevo però di dovermi dimenticare delle mie fissazioni sul naso, o sulla calvizie (di cui immagino pure scriverò), rinunciando a coltivare le fisime dell’adolescenza per essere un più sereno adulto. E così tendo a fare da un bel po’.

Alberto Giacometti, Naso, Immagine da WikiArt e Guggenheim Museum

Ebbene, questa stagione di tamponi (il mio positivo è arrivato dopo otto negativi in un mese, tra cliniche, farmacie, file, prenotazioni e kit fai da te) ha rinvigorito lo spettro della mia avversità al naso, perché il naso è protagonista di test, sintomi e maschere a mezz’asta: il vero teatro minimo in cui si consuma il dramma – a volte l’operetta, a volte la tragedia, spesso la commedia nera – dell’inizio del 2022.

Ho dunque tentato di esorcizzarlo con l’aiuto di Dante, del duca di Montefeltro, di Tyrion Lannister e ovviamente di Gogol e Collodi, camminando sull’orlo della mia personale mancanza di entusiasmo per il cosiddetto “naso importante” di tante fisionomie maschili, inclusa quella che sfoggio dalla pubertà.

Confinato in camera, mi auguro di ricevere i messaggi di chi segue questo spazio: durante le vacanze sono arrivate alcune splendide idee e proposte, e ora che riprenderò a pieno ritmo ad aggiungere voci all’inventario delle cose da maschi sarei felice di includere più spesso interventi di chi incontro solo perché legge queste lettere. Di simili incontri sono davvero grato. Come sono grato per i vaccini che ho ricevuto: vacciniamoci tuttə!

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