Mentre scrivevo queste righe è uscito il nuovo romanzo di Chiara Valerio, Così per sempre. È un libro che continua, e fa presente e italiana, la storia del conte Dracula: un libro che ci rapisce con uno stile e un ritmo (e un lessico, e una trama) da avventurosa lettura adolescenziale, di quelle in cui ancora credevamo, senza ironia, nella letteratura tout court. Ma soprattutto è un libro che ci insegna come non ci sia alcuna virtù nel guardare le cose solo di fronte e direttamente, e come solo uno sguardo fuori dall’umano, uno sguardo altro e storto, possa davvero raggiungere qualsiasi cosa umana amorevolmente, capendola e avendone pietà. 

Avevo promesso di adottare uno sguardo simile nei confronti del conflitto su cui abbiamo insistito per un mese: di mettere una specie di filtro tra la guerra in Ucraina e questa rubrica, questa newsletter – senza però distogliere gli occhi del tutto, senza fare finta di niente. Non so se ci sono riuscito, ma ci ho provato mettendomi a ragionare della cosa da maschi che da bambino, patito di armi bianche e bacchette magiche, snobbavo nella cesta dei giochi. Lo scudo.

Illustrazione originale di Didier Falzone per Cose da maschi
Illustrazione originale di Didier Falzone per Cose da maschi
Illustrazione originale di Didier Falzone per Cose da maschi

Sugli scudi si dipingevano gli emblemi e le imprese che rappresentavano i ritratti interiori di chi li portava: una finestra sull’anima in bella mostra, l’identità più intima sulla superficie più esterna. La parola egida, d’altronde, proviene dal nome dello scudo di Zeus, e anche blasone significa scudo.

Rispondeva forse a un’analoga geometria, sia difensiva che estroflessa, la pratica che, intorno al 2008, caratterizzava le manifestazioni della mia generazione di studenti universitari: scendevamo in piazza imbracciando degli scudi fatti come copertine di libri, presentandoci al contempo come una falange e come una biblioteca. Chi segue queste lettere settimanali può facilmente indovinare che libro avessi scelto io: Composita Solvantur di Franco Fortini, che credo di aver studiato per un esame proprio nell’autunno in cui scoppiò quella che si chiamava “l’onda”. Ricordo che Concita De Gregorio venne a vederci protestare, e scrisse del mio Fortini chiamandomi per nome sull’Unità, che a quell’epoca esisteva ancora – oggi non più, ma l’articolo l’ho trovato comunque googlando un po’.

Nell’articolo di questa settimana (che trovate, cliccando qui, sul sito di Domani, e che sabato come al solito sarà in edicola) non ho avuto lo spazio per riflettere su questo cortocircuito tra interiore ed esteriore, sé e altri, sebbene ci sia molto da dire. Scudo e copertina funzionano in modo simile: determinano l’individuo e al contempo lo legano ai suoi simili, stabilendone i limiti ma anche i punti d’aggancio.

La storia romana ci insegna (come la graphic novel 300) che, per colonizzare o resistere alla colonizzazione (cioè per imporre o restare sé stessi), i maschi possono imparare a sommare i loro scudi in un carapace ulteriore, collettivo – e le femmine devono intimargli di tornare dalla battaglia ognuno col proprio scudo, o sopra di esso. La stessa tecnologia fantascientifica che, in Star Trek, protegge le navi galattiche con degli scudi che resistono a urti e armi nemiche consente agli ologrammi, altrimenti confinati nella stanza delle simulazioni holodeck, di aggirarsi come individui veri e propri, e di interagire con gli altri.

Invece di parlare di questo, nell’articolo mi sono interrogato su un altro accoppiamento mostruoso che si materializza nello scudo: quello tra difesa e aggressività. Come ci ricorda il processo per l’omicidio di Stefano Cucchi, che finalmente è arrivato a sentenza, così tante forme di violenza si dichiarano perpetrate in nome della protezione. Dietro lo scudo di questa retorica si sono nascoste torture e soprusi, e anche la guerra in Ucraina si è giustificata innanzitutto come una forma di difesa.

Dal punto di vista di genere mi interessa in particolare capire perché lo scudo sia così spesso collegato, nella mitologia e nell’epica (ma anche nella propaganda politica e nei romanzi di Harry Potter) con la maternità, e cosa ci sia di virile ed eroico nel suo uso. Gli scudi di Achille e di Enea sembrano finestre architettate da Omero e Virgilio per fuggire dalla guerra per cui sono stati forgiati, e W. H. Auden ha scritto un intero libro di versi per impedire questa evasione. La più formidabile arma dell’Orlando furioso è in realtà uno scudo, lo scudo incantato di Atlante, ma Ruggiero rifiuta di usarlo perché non è onorevole, cavalleresco. C’è un modo di usare lo scudo che non sia colpevolmente fuori dalla realtà o sproporzionatamente aggressivo? Penso di sì, e cerco di spiegarlo con l’aiuto di Perseo e del Dr. Strange – che nei film Marvel evoca degli scudi magici molto simili ai brocchieri che piacevano a Machiavelli.

Al problema del distacco e del contatto fa eco il pezzo di Daniela Zangrando che Cose da maschi ospita questa settimana. Daniela è una curatrice e storica dell’arte contemporanea che dirige il museo Burel a Belluno. Ho cominciato a seguirla sui social vedendo che, nelle sue stories, postava talvolta queste newsletter stampate su carta, sottolineandone a penna alcuni punti. Su Instagram è dunque nato un dialogo tra noi, che ha raggiunto un punto di particolare felicità tre settimane fa, all’uscita del numero dedicato al podio e alle sue falliche verticalità isolanti. Con grande cultura e sensibilità, Daniela ha accostato a quelle idee l’opera di un grande artista che ha seguito molto da vicino, e che conosce personalmente: Alberto Garutti, maestro nel rifiutare la qualifica di maestro.

Trovate l’articolo qui su Domani, e mi auguro che abbiate voglia di leggerlo subito. Riprendendo il filo dal numero della newsletter che l’ha ispirata, Daniela Zangrando parte da una breve e chiarissima lezione di storia dell’arte moderna sull’abolizione del piedistallo. Si sofferma su Rodin e sui suoi Borghesi di Calais, passa agli scherzi di Duchamp e di Manzoni, evoca Beuys. Ma il pezzo forte è la descrizione di un’opera manifesto di Garutti, con cui l’artista ha davvero imparato (e messo in pratica) la possibilità di scendere lui stesso dal piedistallo – e proprio in un’opera pubblica, su commissione, come lo sono i monumenti celebrativi e le grandi istallazioni landmark. Si tratta di un intervento che Garutti ha operato a Peccioli, nel 1994, strappando all’abbandono e al degrado un teatro che era stato il cuore pulsante del paese. Di quel gesto ci rimane una poetica traccia indelebile nell’iscrizione della fotografia che si può trovare qui: «Quest’opera è dedicata alle ragazze e ai ragazzi che in questo piccolo teatro si innamorarono».

Sono molto grato a Daniela per la generosità con cui ha letto e ha scritto per Cose da maschi, condividendo anche la sua telefonata con l’artista di cui ci racconta i coraggiosi passi indietro. E sono sempre grato a un altro artista, Didier Falzone, che anche stavolta mi sorprende con la sobria bellezza dei suoi collage. L’omino-scudo, solo o in falange con altri due, è forse nudo (a parte i minimi sandali) dietro alla superficie rossa e gialla che lo protegge. Mi domando se sia lì a far fronte per sbarrarci la strada o per nascondersi dal nostro sguardo, magari per leggere in santa pace o dedicarsi alla sua ricca vita interiore.

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