A un certo punto, quando insegnavo in prigione nel New Jersey, i miei studenti mi chiesero di istruirli su come si parla a una ragazza a Roma. Come si fa però a insegnare, in uno stanzone di Bordentown, ad apostrofare una passante senza scadere nel falso, nell’eufemismo, nell’esotismo, nell’imbarazzo, nel tossico? Lo scrupolo di un bravo insegnante di lingua mi pare debba essere questo: non costringere chi la impara a dire cose che, nella sua, non direbbe mai; non generare un golem linguistico che esprime idee ed emozioni farlocche, altrui, preconfezionate da una cultura che neanche esiste.

Ho sempre trovato cretina l’ossessione di certi colleghi per la correttezza formale (insegno a comunicare in italiano o a risolvere esercizi? che problema c’è se uno studente sbaglia dieci dettagli quando mi dice una cosa ma io capisco ugualmente, da parlante nativo, quel che mi sta dicendo?) mentre ci tenevo, quando mi è capitato di insegnare corsi puramente linguistici e non letterari o sull’arte, a osservare quella che i detrattori chiameranno forse “correttezza politica”: evitare cioè di inculcare, attraverso esempi e vocabolario, paradigmi inautentici e inservibili – questi paeselli da cartolina in cui tutti leggono il giornale al bar e tifano la squadra del cuore e comprano rose dal fiorista per la fidanzata, queste famigliole-presepe bianche-basiche-benestanti con la mamma casalinga e il papà impiegato: questi detestabili quadretti fasulli costruiti dai textbook di Italian language and culture.

Illustrazione di Alessandro Giammei

Per costruire invece ambienti linguistici abitabili, in cui si può rimanere sé stessi anche attraverso i confini culturali (e apprendere senza necessariamente aderire a un modello, a un supposto “italiano vero”) bisogna, mi pare, educare correttamente alla scorrettezza, cioè all’incorreggibilità, e non prescrivere. Bisogna, socraticamente, accompagnare. E dunque, in quello stanzone di Bordentown, chiesi ai miei studenti di sparare loro qualche tentativo, attraverso le parole italiane che conoscevano già o riuscivano a inventare, per dire di quella bella romana immaginaria.

L’unico elemento di lessico nuovo che offrii loro, senza pensarci troppo su, fu il termine “fata”, che a Roma si usa per lodare da smargiassi una passante segnalando, appunto, la propria romanità. Non mi ero reso conto, sul momento, degli equivoci di genere che quel termine, in inglese usato per significare tutt’altro, poteva generare. Né di quelli ulteriori che sarebbero nati quando gli studenti, sbagliando appena pronuncia, dissero alle mie colleghe che gli avevo insegnato a dire, al veder apparire una bella romana, «ecco la fava!».

Da questi cortocircuiti linguistici parte il terzo pezzo di Cose da maschi in estiva, dedicato ai cosiddetti “falsi amici” tra lingue diverse, ai miei orgogli pedagogici, alle Winx, e all’involontario cameratismo che ho generato in una inconsueta aula universitaria nel mezzo del nulla, dove si era a Roma ma anche nell’antica patria linguistica degli osci, tra i pianeti lunari di Dragon Ball e nel dizionario etimologico del Pianigiani. Lo trovate qui su Domani online, e sabato come al solito lo troverete in edicola. Con esso si chiude il dittico più personale di questa mini-serie di luglio, che procederà con toni più fantasy (e credo dannunziani) la settimana prossima.

Illustrazione di Giorgio Bondì

Questa settimana c’è poi un nuovo ospite, già annunciato e molto desiderato sebbene arrivato inaspettatamente. Si tratta di Giorgio Bondì, giovanissimo ingegnere biomedico esperto di robotica che dal 2015 dirige la comunità di Star Wars Libri & Comics, un portale nella galassia narrativa che tiene insieme l’universo espanso di Guerre stellari. Ora, chi segue questa newsletter sa bene quanto io sia patito di cavalieri Jedi e principesse col blaster nella fondina, e può dunque immaginare come mi abbia deliziato ricevere gli appunti di Giorgio due settimane fa, quando parlando della Forza l’avevo associata al caso. Con filologico puntiglio, l’ingegner Bondì mi ha corretto, e da quell’interazione è nata l’idea del suo articolo, che trovate a questo link su Domani e spero leggerete tutto d’un fiato.

Se Star Wars, dati alla mano, appare tanto irrimediabilmente una cosa da maschi, non dobbiamo dimenticare che la Forza è femmina, e lo è proprio perché stabilisce un paradigma alternativo per il potere – bisogna sentirla, abitarla, abbandonarsi a essa per esserne davvero alfieri, non dominarla con l’impulso volitivo che porta inevitabilmente alla rovina i Sith. Giorgio, con acuta semplicità, collega l’errore di Darth Vader e degli altri signori del lato oscuro a quello di Machiavelli, che identificava (come da tradizione) la Fortuna con una donna, sì, ma invitando i principi a sottometterla e batterla, costringendola quando possibile al proprio volere.

Le leader femminili di Star Wars – ma direi anche Luke, e Obi Wan, e il Mandalorian che mi piace tanto e che Giorgio ricorda assieme a meno noti ma altrettanto fascinosi personaggi dei romanzi che ne condividono lo Storyworld – ci propongono un modello di condotta e di filosofia diverso, in cui le tradizionali risorse dei maschi risultano infine perdenti, e la Forza offre un’abitabile femminilità a tutti e tutte.

Che bello trovarsi tra nerd a discettare, sul giornale, di filologia e spade laser, Machiavelli e Winx. Non smettete di scrivermi, e arrivederci al prossimo mercoledì – con un nuovo, terzo pezzo del filosofo femminista Lorenzo Gasparrini ad accompagnare le mie elucubrazioni etimologiche.

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