C’è un colpo di teatro rischioso, estremo, addirittura olimpionico nell’arsenale di una drag queen all’apice della propria forma e performance. Se ne sono viste alcune esecuzioni nelle puntate davvero epiche di RuPaul’s Drag Race. La statuaria, ipertrofica incarnazione di ogni rincarata istanza del femminile, proprio sulla nota più drammatica del suo partecipato playback, si porta all’improvviso le mani nei fluenti capelli sgargianti, oppure finge artatamente di inciampare e cadere, o ancora si agita in una specie di possessione da tarantolata.

Quando l’attenzione del pubblico è senz’altro catturata, di colpo qui capelli così vistosi e perfetti si scollano inquietantemente dalla testa, rivelando di non essere altro che una splendida parrucca. Magia! L’illusione si spezza e, incongruamente, ce ne sorprendiamo, ricordandoci di botto che la stavamo in effetti nutrendo.

Ma come? Davvero ci eravamo dimenticati di aver visto quella stessa drag queen metter su quella stessa parrucca prima di salire sul palco, dopo aver battuto sulla faccia l’impressionante maquillage della sua arte metamorfica e farfallesca? Non vedevamo, prima della rivelazione del suo cranio rasato o della zazzera ordinatamente appiattita in un gambaletto da rapinatore, la muscolatura da ragazzo in salute sotto l’abito cucito a mano lustrino per lustrino?

I muscoli di Clorinda

Una simile rivelazione, ma di senso opposto, corona la scena madre di tutta la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: nell’occhio del ciclone di una guerra tra due apparentemente inconciliabili civiltà, Tancredi, cavaliere occidentale, duella a morte con un valoroso avversario saraceno. Vincitore, porta le mani all’elmo del nemico e, all’improvviso, ne sgorgano le chiome dorate della sua amante straniera, sparse al vento come fiumi aerei: è Clorinda, la cui strana bellezza d’africana bionda si celava sotto il drag da guerriero musulmano.

L’armatura, la notte e l’abilità con la spada l’avevano fatta maschio come il trucco, le luci e le abilità coreografiche fanno femmine le drag queen. Claudio Monteverdi, che dall’episodio trasse un’immortale scena d’opera barocca quasi esattamente 400 anni fa, ne apre il libretto ricombinando le parole di Tasso stesso che confermano questo punto: non solo Tancredi non riconosce Clorinda, ma stima che sia un uomo. Possibile? Solo rimuovendo la parrucca o l’elmo l’incanto s’interrompe.

Mi domando però come potesse essersi innescato dapprincipio; come potesse apparire tanto graziosa eppure tanto gagliarda questa Clorinda: una ragazza così possente, atletica, poderosa, da scontrarsi alla pari contro un peso massimo dell’esercito crociato.

La Brienne di Tarth di Game of Thrones, unica combattente donna capace di misurarsi con gli uomini direttamente al loro classico modo cavalleresco di clangori da scherma medievale, è interpretata in tv dall’altissima e magnifica Gwendoline Christie, capace di incarnare credibilmente anche il capitano Phasma di Star Wars e il comandante Lyme di Hunger Games. Dobbiamo immaginarcela così Clorinda? Aitante, fiera e dalle spalle larghe, alta due metri, fasciata da un’inconsueta muscolatura da sollevatrice?

Maschi forti ma sottili

Forse, nell’immaginario di Tasso, non erano le donne a dover essere particolarmente nerborute per risultare convincenti come guerrieri. Può darsi che fossero invece gli uomini a non apparire (anche quando eroi, anche quando cavalieri) gonfi di muscoli da culturista. Può darsi insomma che, nello spettro dell’androginia, non bisogni avvicinare Clorinda a Brienne di Tarth con l’elmo, ma Tancredi a una drag queen senza parrucca. Mi pare che quando ero adolescente avrei dato per scontata tale ipotesi.

L’Achille di Brad Pitt, in quell’entusiasmante disastro cafone di peplum che è stato il film Troy del 2004, vince contro il suo grottescamente muscolare primo avversario più per via del piè veloce che non di una possanza erculea – e d’altronde il Paride di Orlando Bloom è quasi longilineo quanto la Elena di Diane Kruger.

Del resto, agile ed efebico, negli stessi anni Bloom faceva l’elfo elegantone nel Signore degli anelli e il bucaniere a malincuore nei Pirati dei Caraibi: due universi mediatici in cui i muscoli pompati sono tipici di mostri e antagonisti, mentre gli eroi maschili giovani irradiano un carisma tutto facciale, vocale, in cui la forza non è proporzionale al volume delle braccia.

Morpheus, nella più bella scena di botte di Matrix, chiede a Neo se crede che sia più forte o veloce di lui a causa dei suoi muscoli, e ovviamente non è così; Robert Pattinson, in Twilight, esibiva un petto di pollo per mostrare a Kristen Stewart la sua condizione di vampiro sbrilluccicante alla luce del sole, e le ragazze di tutto il mondo impazzivano per quella dimagrata nudità senza turgori. Ma qualcosa cambiò quando, nel secondo film, il licantropo precedentemente bambinesco esplose improvvisamente in un assurdo fisico da statua.

Gonfiarsi per essere degni

Ricordo benissimo il momento in cui l’Harry Potter cinematografico, fin lì ragazzino caruccio ma facile da immaginare nei miei panni, divenne di colpo un’irreale creatura siderale. Al quarto film, nudo nel bagno di Mirtilla Malcontenta, Harry si dimostrava improvvisamente allenatissimo, pieno di addominali e vene in rilievo sulle braccia: un nuotatore, o un ginnasta, che faceva finta di essere un mago con gli occhiali.

Almeno il licantropo di Twilight non faceva finta: addirittura esibiva quei muscoli cesellati per stordire Bella, per strapparle un bacio e convincerla a dimenticare il fidanzato vampiro in cambio di una seduzione elementare (toccami le diceva, sono caldo, sono vivo).

Quei corpi, modellati da diete e allenamenti totalizzanti, non erano come quelli di Wolverine o degli spartani di 300, ovviamente platonici e ultraterreni: erano corpi inimitabili che però si aspettavano di essere imitati. Erano nuovi standard, prima celati dall’elmo dell’infanzia: modelli che portavano nell’allegoria della pubertà (il risveglio della licantropia, di Voldemort, del primo Spider-Man di Tobey Maguire che, in quegli anni, si risvegliava dal morso del ragno scoprendosi nuovi pettorali allo specchio) l’idea che il passaggio da ragazzo a giovane uomo consistesse in un aumento di volume.

Chi come me ha visto Kill Bill a quindici anni non ha difficoltà a immaginare una Clorinda femminilissima e fortissima al contempo, ma si è trovato a un certo punto a dubitare che Tancredi, trasportato nel futuro, potesse assomigliare a Uma Thurman e non a Goku o He-Man. L’ercole di Disney è ugualmente forte da snello ragazzo, ma Filottete gli gonfia pettorali e bicipiti per renderlo convincente come eroe degno dell’Olimpo. Anche se la morale del cartone è in teoria opposta, quest’arco narrativo è visivamente lampante.

Il valore del corpo

Una fetta importante del mercato corrente della maschilità è costituita da miscugli proteici, integratori da frullare, allenamenti e diete telematiche che promettono di gonfiare i muscoli, questa orografia sottocutanea che mappa geologicamente il valore del corpo maschile.

È un’opera aperta il lavoro di chi modella il proprio fisico non per renderlo capace di compiere determinati esercizi ma per farlo bello e valido, degno dell’Olimpo: è una sfida infinita che dà dipendenza, che infinitamente estende i limiti dell’inadeguatezza. La retorica promozionale è quella della salute, ma la verità mi pare puramente estetica: un drag biologico, un travestimento sotto l’epidermide.

Nel 2000, nel video musicale di Rock DJ, Robbie Williams faceva uno spogliarello che continuava oltre la nudità: si strappava la pelle e cominciava poi a lanciare i propri muscoli alla folla dei fan, rimanendo nudo scheletro. Justin Bieber, sempre più nudo e muscoloso sul palco dopo gli esordi androgini e bambineschi, fa forse lo stesso vent’anni dopo, ma senza ironia – e a un simile impulso risponde forse la metamorfosi muscolare di Jeon Jung-kook di BTS.

Da trent’anni Walter Siti, scrittore ossessionato dai culturisti, ragiona romanzescamente su questa mercificazione che fa platoniche e ideali (e dunque remote, paradossalmente impossibili da possedere o abitare) le carni dei maschi incontrabili per strada, riempiendole e arrotondandole come a imitare le curve di un materno senza femminilità.
Più che Platone e Freud però, a me vengono in mente i muscoli dei contadini che mangiano nella pittura di genere europea del Seicento, o quelli degli schiavi nelle stampe americane dei due secoli successivi: volumi da soppesare per una stima, come quelli dei bicipiti e dei pettorali attentamente inquadrati nelle odierne gallerie di Tinder e Instagram. Che siano i muscoli, questa cosa tanto ovviamente maschile, il punto su cui i maschi esperiscono la riduzione della persona a corpo, a merce, che infliggono così facilmente alle donne?

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