Come annunciato nello scorso numero di questa newsletter, dall’inizio del mese sto osservando il Movember lasciandomi crescere i baffi. Devo dire che mi paiono piuttosto sgradevoli sulla mia faccia: più da malfamata comparsa in un film di Scorsese che da hipster pensoso ed ecologista. D’altro canto, l’effetto è efficace. Guardandomi allo specchio non mi riconosco, mi ricordo che essere maschi significa spesso, appunto, reprimere il bisogno di riconoscersi, e ripenso ai problemi della salute maschile di cui ho cominciato a parlare nel pezzo della settimana scorsa.

Visto che questa settimana per la prima volta non c’è un ospite da presentare nella rubrica, ho un po’ più di spazio per ragionare, come promesso, su questi problemi. E vorrei partire da quelli della salute mentale, che così spesso riduciamo a una questione di mera forza o resilienza, umore e personalità, sia che si parli di maschi che di femmine.

Basandosi su oltre quarant’anni di studi specifici su uomini e ragazzi, l’American Psychological Association (la massima autorità statunitense di psicologica clinica) ha stilato, due anni fa, delle linee guida per il trattamento di pazienti maschi, definendo con precisione alcune costellazioni di comportamenti e tendenze altrimenti variamente rubricate sotto il cartellino di “maschilità tradizionale” o quello di “maschilità tossica”, troppo spesso confusi o incongruamente intersecati. L’obiettivo era quello di fornire uno strumento per superare la renitenza culturale maschile, comprovata dagli studi, a riconoscere e ammettere problemi e debolezze, e a cercare aiuto.

Tale renitenza peraltro interagisce con altri fattori, acuendosi in particolare nei giovani uomini di colore. Per questo esistono iniziative come lo Young Black Men project, che raggiunge i ragazzi neri sviluppando contenuti informativi ed educativi appropriati all’età e alla cultura di chi è più vulnerabile alla repressione della vulnerabilità. La normalizzazione della fragilità, e della verbalizzazione della fragilità, è un punto cruciale delle linee guida dell’APA, e forse per questo quel documento ha generato violente reazioni ben al di là dell’ambito della psicologia – tanto che il New York Times ha titolato Sulla battaglia per i maschi si gioca il nostro futuro politico.

La settimana scorsa la profezia del Times è tornata alla ribalta perché uno tra i più papabili eredi politici di Trump, il senatore del Missouri Josh Hawley, ha focalizzato il suo intervento alla National conservatism conference di Orlando proprio sulle linee guida APA, dichiarando che la maschilità è il principale bersaglio della sinistra internazionale. Pare proprio che questo messaggio, ribadito in un’intervista su HBO con Mike Allen, sia da intendersi come pietra angolare della costruzione di un profilo nazionale (e addirittura internazionale) per Hawley, che vede nel riscatto del maschio moderno la soluzione a gran parte dei problemi economici, sociali, e culturali dell’occidente contemporaneo.

Ovviamente, quando questo sorridente quarantenne si scaglia contro la pornografia e i videogiochi che strappano gli uomini al loro dovere di padri e mariti produttivi per conto della castrante sinistra del politicamente corretto, uno dovrebbe solo immergersi nell’ondata di meme e battute che ha generato su internet e spaccarsi dalle risate. E tuttavia la faccenda è inquietante, specie considerando che il motivo per cui Hawley è diventato celebre è che ha incoraggiato, con tanto di pugno alzato, la folla di suprematisti bianchi e neonazisti che assaltavano il parlamento americano per sovvertire il risultato delle ultime elezioni presidenziali, offrendo all’obiettivo di Francis Chung l’occasione per una fotografia che resterà nella storia.

Il pezzo che ho scritto questa settimana lo trovate qui, e ragiona sulla figura di questo maschio che intende guidare i conservatori d’America e del mondo nella battaglia per i maschi, e così facendo piccona direttamente la salute, mentale e fisica, dei maschi medesimi.

Per capire la sua crociata contro la fragilità, la vulnerabilità, la gentilezza, la consapevolezza, e soprattutto l’ozio e l’improduttività maschile, ho indagato in particolare l’oggetto che sembra portare indosso in ogni occasione: la camicia bianca. In uno spettro di rassicuranti grigi e blu, con qualche cravatta rossa, tutto varia nel guardaroba del senatore del Missouri tranne il punto di bianco della camicia, invariato simbolo di un’artificialissima virilità attiva paterna ed eterosessuale che assurdamente si sente naturale. Una virilità che sembra provenire dritta da un’iconica campagna promozionale americana d’inizio secolo, “Arrow Collar Man”, una campagna per vendere camicie.

Non dubito che Hawley si senta, e voglia che tutti i maschi si sentano, come il protagonista di quella campagna, che in ogni poster e cartolina include un singolo giovanotto col colletto bianco su cui gli sguardi di tutti, maschi e femmine, convergono rapiti. Ma sospetto che ignori che il modello per quell’Arrow Collar Man, Charles Beach, era anche probabilmente l’amante dell’illustratore, il leggendario J. C. Leyendecker, che ha dato all’America il suo immaginario maschile bianco e protestante ritraendo uomini e ragazzi in contesti d’intima omosocialità: lo spogliatoio, il club per soli uomini, la sartoria, appunto, del camiciaio.


Uno degli obiettivi di questa newsletter, in arrivo ogni mercoledì pomeriggio, è quello di mappare e allargare la percezione della maschilità che le cose e gli oggetti ci restituiscono, per cui non esitate a scrivermi qui: agiammei@brynmawr.edu per proporre idee, prospettive e memorie.
Per una comunicazione più istituzionale potete invece scrivere a: lettori@editorialedomani.it.
Grazie per la lettura e alla settimana prossima!
Alessandro Giammei

© Riproduzione riservata