In queste settimane di meditazione sulla guerra – questa realtà tremendamente materiale così legata, nei suoi paradigmi iconici e narrativi, alla costruzione delle norme e delle tradizioni maschili – rimango sospeso tra il convincimento che sia opportuno continuare a parlarne, o addirittura necessario investigarla anche culturalmente, e il senso di vergogna di cui parlavo, con l’aiuto di alcune poesie, mercoledì scorso.

Ricordo che lessi, al primo anno di università, un saggio sull’avanguardia italiana che sosteneva che nessuno, dopo aver conosciuto i veri bombardamenti della prima guerra mondiale, poteva più credere agli “zang tumb tumb” dei futuristi, improvvisamente trasfigurati in buffonate grottesche al confronto coi suoni e le sensazioni, ma soprattutto con le tragedie umane, di una guerra vissuta invece che fantasticata. E che per questo il Futurismo stesso, dopo il 1918, smise di esistere; o meglio entrò in una fase inautentica, animata da chi non era morto sul campo di battaglia e non era maturato a più serie ambizioni artistiche: una fase che aveva solo senso come espressione del nascente fascismo, come parodica avanguardia di regime.

Ora che la storia della letteratura la conosco un po’ meglio non sono tanto d’accordo con una simile lettura, eppure continua a colpirmi la sua eleganza sintetica: l’innegabile fascino del marziale, dell’eroico, dell’epico, del deflagrante e totalizzante guerresco (sostanza di tanta narrazione appassionantissima, da Omero a Licia Troisi) si può tramutare all’improvviso, al cospetto di una bomba vera, di una sirena antiaerea vera, di un vero caduto bocconi su una spiaggia, in uno stridulo trucchetto imbarazzante.

Mi pare che il punto sia, oggi come allora, la distanza: a quale distanza una bomba che cade è capace di volatilizzare i discorsi oziosi, le chiacchiere, le onomatopee da futuristi fuori tempo? Qual è la gittata della guerra vera, oltre la quale la guerra la si vede e la si immagina invece di viverla? Se, come racconta con un certo entusiasmo la nuvola mediatica americana in cui sono immerso di qua dall’oceano, è vero che l’occidente sta partecipando, e non solo assistendo al conflitto in Ucraina, c’è da aspettarsi che la retorica e l’iconografia della guerra si estendano alle armi che l’inaspettata alleanza di Biden e degli europei sta mettendo effettivamente in campo?

C’è da figurarsi, insomma, un’epica delle sanzioni economiche, del sistema bancario Swift, dell’accesso ai fondi svizzeri? Un arco di trionfo istoriato con invii di aerei e munizioni all’estero, con bassorilievi degli incrementi della spesa militare, con rappresentazioni di ipotesi di trattative per fare più porosi i confini della Nato e dell’Unione europea? O blatero di fantasie narcisiste, da privilegiato appunto distante, e l’unico teatro che varrebbe la pena descrivere è quello fisico e situato in cui la gente resiste, combatte, muore in numeri che non riusciamo a stabilire se non a spanne?

Illustrazione originale di Didier Falzone per Cose da Maschi

Resisto a leggere le immagini e le storie che ci raggiungono dal fronte (o meglio dagli innumerevoli fronti, anche e soprattutto ingiustamente civili) attraverso i podcast, i video virali, i report e le ricostruzioni. Anche già sui giornali c’è chi può trarne più utili decifrazioni di quelle che potrei tentarne io. Insisto invece sulle rappresentazioni, e in particolare, anche questa settimana, su quella che Giorgio Biscaro, commentandomi su Twitter, mi ha suggerito di definire anch’io come “avatarizzazione” dei leader cui tendiamo a ridurre questa guerra.

La settimana scorsa, attraverso il podio e il piedistallo, abbiamo ragionato sulla verticalità con cui si rappresenta Zelensky. Questa settimana volgiamo lo sguardo a Putin, all’orizzontalità dietro cui si barrica. La cosa da maschi di oggi è infatti la scrivania: un totem del potere maschile che l’autocrate russo adopera nelle sue due compresenti nature di strumento intimidatorio e sintomo di fragilità, salda pietra angolare della supremazia e barriera protettiva isolante.

Trovate l’articolo sulla scrivania, da oggi, qui sul sito di Domani, e sabato lo troverete in edicola. Al centro c’è il ridicolo tavolone di cinque metri al cui capo Putin ha fatto sedere Macron, Orbán, Scholz e altri interlocutori internazionali, accomodandosi all’altro capo in surreali scene da cartone animato (avete presente quando la Bella e la Bestia si ritrovano per colazione nel castello?). Questo assurdo piano orizzontale smisurato ha animato la fantasia dei produttori di meme online, ma soprattutto ha impensierito le penne di Guardian e New York Times: Putin vuole impaurire i suoi omologhi stranieri, mostrandosi irraggiungibile e potente, o è talmente terrorizzato dal Covid che deve frapporre metri di tavolo tra sé e qualsiasi estraneo?

A me pare che le due cose non si escludano, giacché la natura dei tavoli, delle scrivanie, dei raccordi orizzontali tra un maschio di potere e una contropartita più o meno subalterna, è proprio un misto di intimidazione e spavento: esibizione delle dimensioni e manifestazione di un’inadeguatezza, di un timore.

Dal profilo Twitter di @Kremlinpool_RIA

Per questo, abbandonandomi a una pippa mentale infinita su Alice nel paese delle meraviglie, nell’articolo parto dalla strana traduzione ottocentesca di un indovinello del Cappellaio Matto, domandandomi (e domandandovi) che differenza c’è tra un coccodrillo e una scrivania. E per questo mi vengono in mente i tavoli di coccodrillo disegnati da Karl Springer, o i set da scrittoio in coccodrillo dei designer londinesi d’inizio secolo.

La pelle del rettile è un buon correlativo oggettivo di questa ansia maschile per il potere da ostendere, e in cui avvolgersi come in un abbraccio di squame da armatura. In ogni suo discorso importante dall’inizio del conflitto Putin si è fatto inquadrare di là da una scrivania, che fosse quella lunga di legno del suo ufficio al Cremlino o quella bianca e dorata, microfonata, da cui ha ammaestrato il suo consiglio di sicurezza moscovita. La scrivania presidenziale gli dà autorevolezza e stabilità, ma anche una confortevole separazione dal resto del mondo – su cui non si erge, ma da cui si allontana: tiene la distanza.

Solo recentissimamente, forse dopo aver constatato quanto più efficace sia la grammatica visiva attiva e verticale del suo nemico Zelensky, ha scavalcato quella muraglia orizzontale. Come mi ha fatto notare Roberta Jannuzzi (sempre su Twitter) il 18 marzo scorso Putin ha infilato anfibi, piumone e maglione bianco ed è andato ad arringare la folla, che gremiva gli spalti, da un vuoto palcoscenico al centro di uno stadio. Si è fatto più visibile, più visivamente raggiungibile – anche se, fisicamente, per nulla prossimo.

È interessante notare come si sia posto in basso invece che in alto, sul convergere degli sguardi dell’anfiteatro cui lanciava i suoi amplificati discorsi – meno deliranti, ma non meno inquietanti, di quelli prima pronunciati poggiando gli avambracci sulla scrivania. In ogni caso, un po’ come il Megadirettore Galattico di Fantozzi e il demonio in persona in L’avvocato del diavolo, Putin ha adottato l’orizzontale totem della scrivania al polo opposto delle leggerezze, delle diserzioni e delle trasparenze in cui si declina l’iconologia del potere femminile: da Angela Merkel a Miranda Priestley. Ma insomma non posso raccontare tutto l’articolo nella newsletter!

Vorrei invece insistere, prima di congedarmi, su quanto sia bello ricevere i vostri commenti e feedback: non esitate! Da email e messaggi sui social in reazione agli ultimi due numeri sono già emerse ipotesi di contributi, miei e di ospiti, che compariranno nelle prossime settimane su Cose da maschi.

E d’altronde proprio così è nata la collaborazione con l’instancabile Didier Falzone, che sulla scrivania si era inizialmente trovato in dubbio e ha poi partorito la bellissima illustrazione che vedete più sopra: una sintesi visuale, ispirata ai ritratti su commissione di Felice Casorati, delle barricate orizzontali costruite dalle scrivanie, in un ulteriore esito (dopo il realismo magico casoratiano appunto) della fortuna della ritrattistica veneziana del Rinascimento, in cui i piani orizzontali di un tavolo, di un davanzale, spessissimo accoglievano la base delle figure umane a mezzo busto.

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