«Sai dirmi» chiede il Cappellaio ad Alice, sgranando gli occhi di matto, «perché un corvo assomiglia a una scrivania?». O almeno le chiede così nella mia traduzione preferita di Alice nel paese delle meraviglie: quella curata per Garzanti, nel 1989, dalla poetessa d’avanguardia Milli Graffi. E le chiede più o meno la stessa cosa anche in altre illustri versioni nostrane del romanzo: da quella di Masolino D’Amico a quella di Aldo Busi. Il primissimo traduttore di Alice però, nel lontano 1872, aveva stranamente scelto di voltare altrimenti quell’indovinello in italiano. Si chiamava Teodorico Pietrocola Rossetti e, oltre a essere un patriota risorgimentale (e un cugino della grande lirica pre-raffaellita Christina Rossetti), era amico dell’autore, Lewis Carroll. Poteva insomma ricorrere direttamente a lui per indovinare la risposta giusta alla domanda allucinante – il Cappellaio stesso, come ammette poche righe più avanti, non la sa. E tuttavia, Teodorico decise di discostarsi dall’originale, in cui si parla proprio di corvo (raven) e di scrivania (desk), e tradusse: «perché un corvo è simile a un coccodrillo?». Ecco, mi pare che, esattamente centocinquant’anni dopo, la domanda da rivolgere a una tale catena di nonsensi, nel vertiginoso gioco del telefono traduttorio del tè dei matti, diventi: perché una scrivania assomiglia a un coccodrillo?.

Scrivania e coccodrillo

In realtà Carroll, nelle lettere alle sue giovani lettrici e nella prefazione a un’edizione di Alice, un paio di risposte le aveva date. Un corvo e una scrivania, rivelò ad esempio, sono capaci di produrre alcune note, anche se piatte (in inglese, si badi, “bemolle” si dice “piatto”). In italiano si potrebbe magari tentare un gioco di parole tra le nere penne dell’uccello e quelle a sfera, o stilografiche, nello scrittoio: stessa parola, diverso oggetto.

Ma il coccodrillo che c’entra? Come è venuto in mente proprio il coccodrillo a Teodorico Pietrocola Rossetti? Forse perché anch’esso è un po’ piatto, dilungato com’è sulle quattro zampette, come un tavolo su cui mettersi al lavoro? Forse perché, tra le bestie con le gambe, è in effetti quella più ovviamente orizzontale, e non è troppo difficile immaginare il suo dorso come un pericoloso, rugoso piano da scrittura squamato? Del resto, tristemente, scrivanie foderate di pelle di coccodrillo esistono senz’altro. Anzi, l’oggetto più virile che si possa ricavare dalla sfavillante armatura naturale di questo rettile preistorico è forse proprio il servizio da scrittoio, giacché valigette, scarpe e cinture da maschi tradizionali e ordinarie tendono a essere confezionate, invece, a scapito di altri animali – e l’emblematica borsetta di coccodrillo è certo da signora.

Karl Springer, negli anni Settanta, rivestiva di finto coccodrillo scrivanie forgiate in un unico pezzo ricurvo; col marchio Asprey di Londra (i rinomati designer del diamante blu al collo di Kate Winslet in Titanic, quello che la vecchia butta in mare alla fine del film) si producevano, a inizio secolo, verdissimi complementi da scrivania in oro giallo e pelle di coccodrillo. Insomma una contiguità materiale, più che un gioco di parole, lega davvero il coccodrillo alla scrivania, con buona pace di Alice. E direi che questa inattesa fratellanza si gioca su due caratteri in particolare: l’orizzontalità ovviamente, ma anche la scorza, l’epidermide. A differenza dei corvi, scrivanie e coccodrilli hanno a che fare con la superficie.

Il tavolone di Putin

(Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP, File)

Vladimir Putin, all’inizio del febbraio scorso, ha ricevuto il presidente francese Emmanuel Macron al Cremlino per discutere di quella che, allora, era ancora un’imminenza di guerra in Ucraina. Lo ha fatto accomodare, innescando una scena surreale davvero da tè dei matti, al capo di un immane, infinito tavolo bianco lungo almeno cinque metri e sorretto da tre pilastri, sedendosi all’altro capo, tipo prima colazione de La Bella e la Bestia, con tanto di (grottescamente piccino) centrotavola di fiori.

Ha incontrato poi, nello stesso mese, anche il cancelliere tedesco Scholz e il premier ungherese Orbán, sempre frapponendo tra sé e l’interlocutore quel ridicolo tavolo titanico da salone di Dracula, da set di Tim Burton. Il Guardian e il New York Times, tra gli altri, si sono chiesti se un tale tavolone spaziale servisse a intimidire i convenuti, come quelli altrettanto sproporzionati dietro cui siedono i cattivi di James Bond e i sindaci corrotti dei fumetti, o se non si trattasse piuttosto di un’espressione materiale della leggendaria germofobia di Putin, acuita a dismisura dal Covid: una specie di barriera orizzontale per garantire il famoso distanziamento sociale ed evitare ogni rischio di contagio.

La barriera orizzontale

Sputnik

C’è da dire che una simile barriera, all’altezza della bocca del suo stomaco, ha protetto il presidente/dittatore russo nei più cruciali momenti mediatici del successivo conflitto. Pronunciando il delirante discorso del 24 febbraio, e di lì in tutte le sue apparizioni ufficiali durante la guerra che continuava a fomentare e giustificare, Putin è rimasto dietro un tavolo, su cui spesso poggiava le mani gesticolando, o aggiustava i fogli, o poggiava il gomito.

Solitamente, il tavolo è il suo: quello dell’ufficio presidenziale al Cremlino, di legno lucido, ampio fino a uscire da qualsiasi inquadratura a mezzo busto. Non sempre però. A un incontro col suo consiglio di sicurezza a Mosca lo abbiamo visto, solo a un capo della stanza, dietro una scrivania bianca con finiture dorate, ricurvo sulla superficie da cui spuntano due microfoni (giacché l’uditorio, composto di vari uomini e una sola donna su seggioline senza tavolo, è lontanissimo).

Nel video diffuso su Twitter a metà marzo in cui sbraitava di purificazione della società il tavolo c’è, ma non si vede: Putin vi imprime gli avambracci inarcando le spalle, in una posa da bullo che tuttavia gli gonfia la giacca verso la nuca, deformandolo in una figura gobba e senza collo cui la scrivania restituisce la spinta aggressiva. È solo dopo quasi un mese di guerra che, forse constatando quanto più efficace sia la grammatica visiva attiva e verticale attraverso cui si racconta invece Volodymyr Zelensky, Putin si è liberato della sua trincea orizzontale, scavalcando la scrivania e comparendo in piedi, in un piumone aperto sul maglione bianco, al centro di un palco a sua volta al centro di uno stadio moscovita. Lì parla al microfono in un video del 18 marzo scorso, sempre solissimo ma circondato da remoti spalti gremiti di sostenitori.

La scrivania è un totem del potere maschile: il piano su cui si esercitano poteri politici, economici e culturali. Non a caso la metonimia che si usa per sintetizzare il raggiungimento dello status di professore è “cattedra”; non a caso il capo, quando esige qualcosa da chi gli è subalterno, si aspetta di trovarla sulla sua scrivania a una certa ora. Non a caso Frank Underwood, in House of Cards, si dirige subito alla scrivania nello studio ovale quando finalmente riesce a sgraffignare la presidenza degli Stati Uniti, e vi sbatte il pugno in segno di vittoria. La scrivania separa Pietro Airota da Elena nella terza stagione de L’amica geniale, quando lei cerca il suo aiuto di marito progressista ma lui si asserraglia nel ruolo di novello patriarca.

D’altro canto, questa pietra angolare della supremazia virile è anche una protettiva pelle di coccodrillo: un bunker dietro cui trincerarsi, un diaframma per tenere qualsiasi minaccia a una rassicurante distanza. Mi pare che le scrivanie e i tavoloni dietro cui si barrica e confina Putin, rifiutandosi di sedere invece ai tavoli collegiali delle trattative, rivelino la pericolosa fragilità del suo maschile mito di sé.

È importante notare che l’iconizzazione del potere femminile sovverte la galleria cui Putin ricorre, e cui partecipano anche le mistiche scrivanie, simili ad altari di chiesa, del Megadirettore Galattico di Fantozzi e del demonio in persona, interpretato da Al Pacino, ne L’avvocato del diavolo – che nel suo superattico non ha neanche un letto, solo la scrivania da cui orchestra l’apocalisse.

Angela Merkel famosamente rifiutava di usare la massiccia scrivania nera ereditata da Schröder, e lavorava a un piccolo scrittoio di fianco. Miranda Priestly, ne Il diavolo veste Prada, lavora a un tavolo di cristallo, dalle gambe sottili, che non nasconde nulla. E persino la Madonna, quando l’angelo la trova intenta a studiare nell’Annunciazione di Leonardo, adopera un tavolo piccolo, grande appena per contenere il leggio col libro – mentre suo figlio, nella sconfinata Ultima cena, siede al centro di una lunga tavola affollata solo da un lato, neanche fosse l’orizzontale barricata contro cui si va a sostenere un esame, a chiedere un aumento, a difendere un imputato o a sentir sragionare un autocrate spaventoso e spaventato, forse prossimo a versar lacrime di coccodrillo.

© Riproduzione riservata