La galleria forse più chic di Manhattan, certo la più accogliente, non è una galleria. È un appartamento, un luminoso gigantesco loft su Broome street, a SoHo, cui si accede da uno di quei grandi ascensori che solo in America. Si chiama CIMA e funziona proprio come una casa, solo che è solitamente piena di capolavori dell’arte contemporanea italiana.

In questi mesi è stata piena di opere di Mario Schifano, il pittore più fico della Roma del secondo Novecento, un genio del pop che ha però sovvertito la logica del pop (mentre flirtava con Marianne Faithfull, faceva film con Mick Jagger, intervistava Sandro Penna seppellito dalle sue cianfrusaglie nella stanza ammobiliata in cui sarebbe morto pochi anni dopo).

Il pezzo che ho scritto questa settimana (lo trovate qui) parte da questo leggendario romano nato in Libia, perché sto per andare al CIMA a parlare di una delle sue cose da maschi: lo smalto.

Tutte le opere di Schifano in esposizione a New York, dai vividi monocromi e smussati rettangoli di metà secolo ai dettagli d’insegne, coca-cole, Leonardi da Vinci e Futuristi rivisitati degli anni Sessanta, sono composte della stessa sostanza: tele tese dal legno, spesso coperte di carta incollata a vinavil e, come ultimo strato, la pittura più aggressivamente insolubile e industriale sul mercato, una scintillante tintura capace di abbracciare superfici anche impermeabili per ricoprirle di colore: lo smalto appunto.

Questa viscosa vernice vitrea ha una vitalità minerale che, al contatto con la tela, non si lascia assorbire, rimanendo con noi al di qua dello schermo che, nelle illusioni classiche della pittura, si farebbe altrimenti finestra.

Mi sono domandato cosa succede a metterla in contatto invece con la vita organica, sensibile, del nostro corpo, virando verso lo smalto per unghie. Naturalmente c’è da pensare a Fedez, e a tutta la teoria di uomini che (sin dallo Scamarcio smaltato di L’uomo perfetto del 2005) hanno sdoganato la manicure virile, l’armatura verniciata sulle corte unghie dei maschi. Mi permetto però di incoronare, dopo il regno incontrastato di Schifano sul versante pittorico, uno specifico principe dello smalto cosmetico dei nostri tempi: il trapper portoricano Bad Bunny, che quando fu cacciato da un salone di bellezza spagnolo per aver chiesto manicure e colore scrisse su Twitter «What year is it? Fucking 1960?».

Charles Bargue (Wikimedia Commons)

Si sarà capito che io di anni Sessanta sono patito. E dunque, come tutti, sono rimasto incantato dalla serie The Queen’s Gambit, che mi ha condotto durante la pandemia a innumerevoli ore di scacchi online, sia come giocatore che come spettatore delle star che spopolano su YouTube analizzando partite, discettando di fianchetti e aperture siciliane, e intervistando campioni (tutti maschi, motivo per cui a un certo punto dovrò scrivere di questa curiosa tribù digitale di scacchisti muscolari e spesso un po’ stolidi).

Il libro di Ivano Porpora, Un re non muore, appena uscito per UTET, ha poco a che fare con le ragioni assai mainstream per cui mi sono recentemente interessato al gioco. E proprio per questo mi ha rapito in questi giorni, in cui l’ho consumato sullo schermo di un tablet. Non è né un saggio né un’opera narrativa, ma proprio un Corso letterario di scacchi, come dice il sottotitolo. E degli scacchi considera tutti gli aspetti, dalla trascendenza del simbolo all’immanenza dell’oggetto, con un erudito feticismo senza manie che appassionerebbe chiunque.

Ho chiesto all’autore, che di solito scrive romanzi e racconti, di pensare a un pezzo sugli scacchi per Cose da maschi – soprattutto perché, dopo aver letto il libro in due sere, mi era rimasta molta voglia di continuare a seguirlo nei suoi ragionamenti sul gioco. Con molta generosità, Porpora l’ha scritto e me l’ha mandato, e ora lo trovate qui su Domani. Fatemi sapere cosa ne pensate. E, oltre a leggere il libro di Ivano Porpora, vi invito a mandarmi foto delle vostre unghie dipinte. 


Uno degli obiettivi di questa newsletter, in arrivo ogni mercoledì pomeriggio alle ore 18:00, è quello di mappare e allargare la percezione della maschilità che le cose e gli oggetti ci restituiscono, per cui non esitate a scrivermi qui: agiammei@brynmawr.edu per proporre idee, prospettive e memorie.
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Alessandro Giammei
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