Il regalo natalizio invalso per i maschi vari della propria vita (padri e nonni, capi e subalterni, amici e semisconosciuti) è la cravatta. Le cravatte, così ovviamente falliche e immediatamente normative, tra la fascia di prestigio e il cappio da guinzaglio, sono addirittura un simbolo della maschilità – e di una maschilità intrinsecamente autorevole e obbediente, in seno al capitalismo.

Emerse come moda francese nella prima modernità, nientemeno che alla corte del re Sole, a partire dall’imitazione di un certo tipo di sciarpa marziale croata (da cui il loro nome in quasi tutte le lingue occidentali), esse non appaiono né troppo personali né troppo distaccate nel rituale scambio di cose di consumo stagionale. E hanno anche il vantaggio di resistere, in qualche modo, al consumo stesso, durando negli armadi ben oltre la scadenza sempre più ravvicinata di quasi ogni altro capo d’abbigliamento.

Le fantasie su quelle strisce di stoffa da collo tendono a sopperire alla mancanza di fantasia di chi dona (spesso anche di chi indossa), ed esprimono l’essenza fondamentale dell’oggetto in sé: nel guardaroba tradizionale maschile, si tratta dell’unico elemento patentemente inutile, dell’unico orpello che davvero non serve a niente – sebbene, essendo richiesta o perlomeno attesa in diversi contesti, la cravatta finisca per fungere da “regalo utile”. Utile ma senza funzione, se non simbolica.

[Collezione di cravatte di Alessandro Giammei, in parte già appartenuta a Giovanni Battista Matacchioni]

Indosso quasi tutti i giorni una cravatta dagli anni dell’università (alla Sapienza di Roma, luogo di massa, in cui distinguersi dalla – o conformarsi alla – massa è un problema complicatissimo per un ventenne secchione, ne ho scritto parecchio qualche anno fa) e nel pezzo di questa settimana ho ricostruito come e perché ho iniziato a farlo.

Il punto di tale autoanalisi, che trovate qui, è sospeso tra questioni materiali e, appunto, simboliche: il desiderio di assomigliare a certi modelli extra-generazionali (e alla loro rassicurante autorità) e le condizioni strutturali che permettono o meno di farlo. 

Tra queste ultime, che spiegano credo la natura segreta e addirittura liberatoria di un certo modo di comprare ed esibire cravatte, quella fondamentale è l’assortimento: le cravatte debbono essere molte, e diverse, così da costituire un prontuario, un alfabeto da cui pescare per comporre parole e frasi che a loro volta compongano, nel tempo lungo della performance quotidiana dell’identità in un contesto sorvegliato e conforme, una storia anche anomala, anche strana.

Da Romanzo Criminale all’indie pop tipo Baustelle si tende a semplificare l’idea di cosa sia un dandy, riducendolo a una specie di cicisbeo o elegantone (addirittura a uno coi soldi, o a un superficiale); ma chi ha studiato l’effetto dell’industrializzazione e del capitalismo sulle cose sa che il dandismo nasce come resistenza ostinata alla trasformazione degli oggetti in merce.

Scegliere le cravatte (idealmente usate) in un negozio e poi sceglierle di nuovo dal proprio armadio non è, necessariamente, un gesto di vanità. E di sicuro è un comportamento che ha a che fare con la performance della maschilità, che la cravatta al contempo conferma e interrompe.

[Tom Roberts, Professor Marshall-Hall, 1892; William Orpen, Professor Gregory Foster, 1925; Ilya Repin, ritratto del professor Ivanov, 1882, foto da wikiart.org]

Visto che si parla appunto di performance e della Sapienza di Roma, questa settimana ho chiesto di scrivere per Cose da maschi a una mia brillante collega, con cui ho condiviso tutto il percorso di studi (il mio in italianistica il suo in linguistica). Si chiama Rosalba Nodari, è una sociolinguista esperta di fonetica sperimentale, e dovrebbe, a mio parere, essere una specie di icona, una celebrity culturale.

Alla Sapienza, più io cominciavo a travestirmi da professore con cravatte e camicie e addirittura qualche giacca, più lei esibiva un guardaroba da pazza impossibile da ignorare, che prendeva in giro senza sottigliezze il contesto ingessatissimo in cui lo sfoggiava: borchie, maglie da concerto punk, sottane da vedova siciliana, bomber da motociclista, calze da metallara femminista.

Quando ci trasferimmo entrambi a Pisa per studiare in Normale io sembravo uscito dalla copertina di un almanacco Bompiani degli anni Sessanta, lei da quella di un album sperimentale islandese di culto. Apparivamo, insomma, nemici giurati, ma siamo invece diventati amici del cuore anche perché, in fondo, giocavamo una partita espressiva analoga, sebbene ai poli opposti dello spettro dei cortocircuiti tra norma e deviazione, apparenza e sostanza (tutte opposizioni che hanno senso solo in una scintilla di cortocircuito, appunto).

[Giuseppina Gonnella prima della trance, foto Wikipedia]

Rosalba, che per lavoro analizza gli spettri vocali degli adolescenti calabresi e le registrazioni di trance mistiche di santone meridionali possedute da spiriti maschili, questo mercoledì ci regala una introduzione sia seria che sfacciata alle dimensioni della linguistica di genere che trascendono la grammatica e si inabissano per davvero nella caverna del corpo.

Perché la schwa ci interessa, certo, ma è “solo” la punta morfologica di un iceberg esaltante, consustanziale a qualsiasi ragionamento sulla lingua (non esiste in fondo una “linguistica di genere” perché, come ci ricorda Rosalba, tutta quanta la linguistica è la base teorica e sperimentale su cui gli studi di genere si sono fondati, e di cui ancora si nutrono).

L’articolo, che trovate qui, parte dal presidente della Crusca che risponde ai telespettatori di Uno Mattina e arriva a Paperino, capace di cambiare voce con una pillola magica. E attraversa il giubbotto elettrico di Gianna Nannini studiato dalle teoriche del postumano, l’artista trans SOPHIE che artificialmente produce la sua vocalità non binaria, le radici linguistiche del gender teorizzato da Judith Butler, i Blur, Padre Pio, e gli uomini che cambiano la propria identità vocale quando prendono coscienza del proprio orientamento sessuale.

Anche stavolta, insomma, tra cravatte e voci, torniamo alla questione del drag, della performance, di come certe cose che appaiono travestimenti o appendici siano invero l’unica determinabile sostanza (materiale o puramente eterea, di onde e spettri) di ciò che chiamiamo “maschio”.

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