Ricorderete forse che la settimana scorsa ho contratto il Covid. Tra il test che me lo ha rivelato e quello, dopo dieci giorni, che è risultato invece negativo, sono rimasto chiuso nella stanza in cui sono cresciuto, a Roma sud, tra i cinque mobili fondamentali che, in varie incarnazioni, la hanno sempre arredata: un letto e un comodino, una scrivania e una libreria, un armadio.

Pensavo di conoscere questo posto, queste pareti bianche al cui angolo di nord-ovest mi sono addormentato, facendo i conti, di gran lunga più volte che in qualsiasi altro luogo. E tuttavia non c’è niente di più oscuro, mi pare, di ciò che crediamo familiare.

Non a caso l’articolo che ho scritto durante questa reclusione e regressione all’infanzia (lo trovate qui su Domani) è dominato da quadri e scritture di artisti surrealeggianti e perturbanti: Giorgio de Chirico, Leonora Carrington, Vsevolod Ivanov. Ma anche da Ariosto e Dante, giacché il tema è quello della cameretta; di quella che Virginia Woolf, individuando l’essenziale discrimine materiale e spaziale tra destini maschili e femminili, famosamente chiamò «una stanza tutta per sé».

Ora che ci penso, avrei forse dovuto descrivere la terrificante eppure domestica, febbrilmente mansueta camera da letto di Van Gogh – che non capisco come si possa voler stampata su una tazza o su un’agenda senza farsi venire l’ansia. Oppure le stanze killer di Cube, uno di quei film che, pur esilissimi e in fondo senza contenuto (né poi molta forma), si finisce per riguardare con inspiegabile gusto ogni pochi anni, come se non si sapesse dove vanno a parare, forse perché in qualche modo archetipici e dunque sempre terrorizzanti.

Mi interessava tuttavia escogitare evasioni, rivoltare la cameretta del privato maschile come un calzino spaiato, giacché l’interiorità è proprio la più sacrificata delle dimensioni nel paradigma del maschio che troviamo predicato in ogni narrazione individuale e collettiva.

Il sentimento che ho provato abitando la mia prima automobile usata non corrispondeva al mito della libertà esplorativa e sfrecciante, esteriore: mi pareva invece di avere all’improvviso una seconda camera, mobile e davvero mia. La più autentica gioia professionale che ho esperito è stata arredare un mio studio all’università, portare i miei libri in quella camera fuori casa.

E in tali ulteriori camerette, che servono in fondo a incontrare altre persone, mi sento ancora solo nel modo più fruttuoso e piacevole – come appunto Dante che si rintana, dopo il primo saluto di Beatrice, a sognare mostruosità e poi a scrivere il sonetto che gli farà stringere amicizia con Cavalcanti, o de Chirico che descrive il proprio parquet come il ponte di legno lucido di un paccobotto di lunga navigazione.

Isolato in casa ho ricevuto, tra molti messaggi, l’ordine di guardare The Power of the Dog di Jane Campion da parte di un’amica davvero geniale, che ho già menzionato in questa newsletter e descritto altrove.

Di lei non posso che fidarmi, perché ogni volta che ci troviamo d’accordo mi sento più intelligente. Si chiama Ida Campeggiani, insegna letteratura italiana all’Università di Pisa, e condivideva con me un tavolaccio al quarto piano della torre della Gherardesca ogni mattina quando entrambi studiavamo per il nostro perfezionamento in Lettere.

Da allora ha scritto un premiato volume capitale sull’ultimo Ariosto, saggi di finissima chiarezza sulla metrica, la satira, l’epica e la lirica, una traduzione di Durling. E ha scritto anche il commento, che mi sembra definitivo, a uno dei libri più belli e importanti della nostra modernità poetica: La bufera e altro di Eugenio Montale, uscito per Mondadori con una copertina elettrica che ai miei occhi rappresenta bene l’esercizio di cui Ida, come quei pochi studiosi che hanno il coraggio di guardare la letteratura davvero grande direttamente in faccia, mi è parsa sempre capace: imbottigliare il fulmine.

Dal profilo instagram del film The Power of the Dog

Dopo aver guardato il film di Campion, trovandolo un capolavoro, ho scambiato alcuni eccitati messaggi vocali con questa brillante amica, che mi ha fatto notare alcuni dettagli di lancinante verità: le ombre dei cowboy che assomigliano a quelle di dame dalle ampie gonne, i “pantalonazzi” con cappello e cinturone del costume Cumberbatch che trasfigurano in un vero e proprio drag, i gioielli di famiglia infine ereditati dall’isterica shakespeariana arrivista di Kirsten Dunst come ricompensa per aver riportato l’ordine patriarcale in seno alla famiglia dei rancheros borghesi.

Sono rimasto estasiato dalla sua lettura essenziale, biblica e universalistica, dell’affresco in movimento orchestrato da Campion, e le ho chiesto di metterla per iscritto.

Con gratitudine dunque riapro lo spazio di Cose da maschi a scritture altrui, dopo la pausa delle vacanze, ospitando questa pagina di Ida Campeggiani (qui su Domani) che finalmente mette a fuoco un film di cui si è parlato un po’ troppo semplicisticamente sia in italiano che in inglese.

Mi piace che esca proprio ora che The Power of the Dog ha fatto man bassa ai Golden Globe, aggiudicandosi tra l’altro i premi per miglior film e miglior regista.

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