«Guarda che belli i fiori in quella città, che mai mi ha visto e mai nemmeno mi vedrà. Guarda che mare, guarda che barche piccole che vanno a navigare». Francesco De Gregori dedicava questi versi, nel 1985, al Festival di Sanremo («la città dei fiori»), cui in effetti non è mai andato. Anche De André, Paolo Conte, Guccini, per citare solo alcuni fra i più grandi artisti della canzone italiana, non sono mai stati al Festival di Sanremo, né come concorrenti né come ospiti.

Tutti si sono recati però, più di una volta, alla Rassegna della canzone d’autore, che si tiene ogni anno in autunno, nella stessa città: è intitolata a Luigi Tenco, che si suicidò a 28 anni proprio al Festival di Sanremo, «come atto di protesta», così scriveva nel biglietto di addio, «contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e a una commissione che seleziona La rivoluzione».

Rose e fiori

Era il 1967. Io, tu e le rose è una canzone bellina di Orietta Berti che, già dal titolo, esemplifica una visione tutta rose e fiori dell’amore (ma l’amore vero è anche conflitto, gelosia, sofferenza, follia).

La rivoluzione era una canzone, bruttina, cantata da Gianni Pettenati, su testo di Mogol: «E basteranno pochi anni, oppure poche ore, per fare un mondo migliore, un mondo dove tutti saranno perdonati. Chi ha vinto e chi ha perduto, vedrai, si abbraccerà». Insomma la rivoluzione come un pranzo di gala, anzi, una scampagnata: «Guarda ora per strada, ognuno si sorride senza più un perché». Tutto rose e fiori, di nuovo, il conflitto sociale cancellato.

Erano canzoni false, secondo Tenco. Eppure erano le canzoni amate dal pubblico e dalla critica. Lui, apparentemente, aveva sbagliato tutto.

Club Tenco

Cinque anni dopo, proprio a Sanremo viene fondato il Club Tenco, per promuovere e sostenere la canzone d’autore, non solo italiana: «Ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e poetico realismo» (dallo statuto). Fu fondato da Amilcare Rambaldi (1911-1995), che era stato l’ideatore anche del Festival di Sanremo, partigiano e imprenditore floricolo, cui peraltro hanno dedicato canzoni Roberto Benigni e Paolo Conte; oggi è presieduto da Sergio Staino.

A due anni dalla nascita, nel 1974, il Club Tenco organizzò la Rassegna della canzone d’autore, una manifestazione oggi alla 44esima edizione e ormai diventata unica al mondo: ha visto sul palco non solo i maggiori artisti della canzone italiana, ma anche molti dei più grandi artisti della canzone mondiale, in ogni lingua (da Léo Ferré a Nick Cave, da Charles Trenet a Caetano Veloso, e molti altri).

Nel 1986, per dire, il primo giorno ha visto sul palco Enrico Ruggeri, Paolo Conte e Joan Manuel Serrat; il secondo, Fossati, Guccini e Tom Waits; e poi a un certo punto si sono ritrovati, a cantare insieme, Benigni, De Gregori, Fossati e Paolo Conte. Ad aprire la rassegna, a mo’ di sigla, ogni volta un’interpretazione diversa di Lontano lontano di Luigi Tenco.

Distinzioni che cadono

In effetti, per una beffa del destino, il suicidio di Luigi Tenco avvenne proprio alla vigilia di un cambiamento epocale nei gusti del pubblico. Un cambiamento già in corso in altri paesi dell’occidente, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, durante gli anni Cinquanta e Sessanta.

In Italia alcuni, come Tenco, l’avevano anticipato, ma poi arriverà solo alla fine degli anni Sessanta, a partire soprattutto dai primi lp di De André, che avranno anche un grande successo di pubblico (nel 1968, il disco più venduto in Italia fu Tutti morimmo a stento) e alzeranno per tutti l’asticella.

La “canzone d’autore”, che storicamente e concettualmente nasce in contrapposizione alla canzone commerciale (un po’ come l’idea del “cinema d’autore”, di derivazione francese), vivrà in Italia una straordinaria fioritura artistica durante gli anni Settanta e fino all’inizio degli anni Ottanta, proprio mentre il Club Tenco muoveva i primi passi e il Festival di Sanremo sembrava in declino.

Fu anche, quella, l’epoca dell’affermazione in Italia dei diritti sociali, prima, e poi dei diritti civili di seconda generazione: il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia con la parità fra uomo e donna; fino alla libertà di amare, cioè a una rivoluzione di portata millenaria nel nostro modo di vivere e di essere.

Anche la canzone cambia, radicalmente, e in Italia come in tutto l’occidente assurge a colonna sonora e veicolo culturale di questa epocale trasformazione: trovando in ciò piena dignità artistica (e conseguendo straordinari successi commerciali). Mancava poco. Ma Luigi Tenco avrebbe vinto. E difatti noi ancora adesso ascoltiamo le canzoni composte secondo i canoni che si affermarono allora.

Se però la canzone d’autore diventa (anche) commerciale, ha ancora senso questa distinzione? L’anno che verrà di Lucio Dalla, o La leva calcistica e La donna cannone di De Gregori, che cosa sono? Canzoni d’autore, o canzoni commerciali?

Sono opere d’arte. Nell’ambito di un genere artistico particolare, che si chiama canzone o, se vogliamo, “musica leggera”.

Alcune di queste opere d’arte, come ogni opera d’arte, possono arrivare a ottenere un enorme successo di pubblico, fino a diventare parte della nostra memoria collettiva.

Valore artistico

Vista da questa prospettiva, l’espressione “canzone d’autore” perde di significato. Proprio come, in effetti, non ha più molto senso parlare di cinema d’autore, come contrapposto al cinema commerciale (cosa sono i film di Tarantino, per esempio?). Esistono film belli e film brutti. Allo stesso modo, sostiene Sergio Sacchi, che c’era sin dalla sua fondazione e oggi è il responsabile artistico del Club Tenco, l’unica distinzione da fare è quella fra canzoni belle e canzoni brutte. Cioè, fra le opere che hanno un valore artistico e altre che non lo hanno. Come avviene con ogni forma d’arte.

Se la canzone è arte, non merita aggettivi (impegnata, commerciale), né genitivid’autore, d’evasione). Il Tenco quest’anno lo riconosce in modo inequivocabile. Già dal titolo scelto per la rassegna: Una canzone senza aggettivi. Già dal tema conduttore degli spettacoli, cui ogni artista ha fatto almeno un riferimento: le canzoni di Battisti e Mogol.

Di più. Uno dei Premi Tenco è stato assegnato proprio a Mogol: che per l’occasione è venuto di persona, a 85 anni, per la prima volta davanti al pubblico del Tenco. Ma in realtà era stato già Battisti a chiudere il cerchio, quarant’anni fa, quando, nel primo disco senza Mogol (E già, 1982), cantava: «Ho imparato da Dylan a dire quello che mi pare».

La canzone è questo, in fondo: una manifestazione di libertà, un frammento della liberazione umana. Se bella, può dare conforto alla nostra vita, alle nostre scelte. E la bellezza sta nel suo valore artistico.

In fondo, l’arte è ciò che più distingue noi Sapiens da tutti gli altri esseri viventi. Nessun altro animale intelligente ha l’arte. Di più, a un certo punto proprio la comparsa dell’arte – che non ha una funzione pratica, ma solo simbolica – segna, a quel che ne sappiamo, un punto di svolta nell’evoluzione umana: separa i Sapiens sapiens da tutte le altre specie di Homo, con l’eccezione parziale dei Neanderthal. E fra tutte, la canzone è un’arte che si basa sulla musica e sulla parola: altre due caratteristiche distintive degli esseri umani.

Futuro

Questo discorso però è importante anche per il futuro. Noi stiamo entrando in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sarà in grado di creare autonomamente prodotti artistici: quadri, poesie, canzoni. In parte è già così, almeno per l’arte visiva. Potranno presto essere sfornate all’infinito nuove canzoni, in tutte le lingue.

Cos’è allora che distinguerà le canzoni belle da quelle brutte, quelle “vere” da quelle “false”? Non certo il fatto che sono state fatte da un computer, o da una persona (ascoltandole, non ce ne accorgeremo nemmeno). Né il loro successo commerciale. Ma il contenuto artistico che ritroviamo in loro: cioè la capacità di raccontare e interrogarci su cosa significa “essere umani”, sulla nostra condizione di esseri viventi dotati di sentimento e ragione, venuti fuori dal nulla, abitanti per un tempo limitato un insignificante pianeta del cosmo.

In Italia, a Sanremo, da quasi cinquant’anni, forse è proprio questo quello che cerca di dirci il Club Tenco. Nel valore artistico, troviamo la storia e il futuro della canzone.

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