Amedeo Avogadro, chimico piemontese, è diventato famoso nell’Ottocento per il numero che indica la quantità di particelle elementari contenute in una mole di sostanza. Robin Dunbar, psicologo evoluzionista inglese, lo è diventato ai giorni nostri per il numero che indica quanti amici potete avere, ovvero quanti ne hanno in media le persone.

Il numero di Avogadro è un numero enorme, tanto che risulta difficile anche solo dare un’idea del suo ordine di grandezza, e confesso di non aver mai capito bene cosa sia una mole: tuttavia credo fermamente che le particelle contenute in una mole siano quelle e non una di più.

Viceversa il numero di Dunbar è un numero perfettamente padroneggiabile (centocinquanta); non ho di solito difficoltà a capire cosa si intenda per amico, e tuttavia il numero di Dunbar mi è sempre parso una presa in giro.  Adesso che il suo libro Amici (Einaudi 2022) è stato tradotto in italiano posso finalmente capire perché.

Chi sono gli amici

Di norma le persone che leggono che il numero medio di amici è 150 reagiscono con stupore a anche un po’ di fastidio. Tutti siamo portati a osservare subito che di amici veri ne abbiamo molti, molti di meno, quattro o cinque al massimo.

Questa obiezione, però, è facilmente respinta da Dunbar dicendo che lui non intende amici intimi, ma un’altra cosa. Il problema è che quest’altra cosa non è mai definita rigorosamente, e soprattutto che nelle analisi di Dunbar le caratteristiche dei vari gruppo di persone che a titolo diverso lui chiama “amici” sono individuate con continue sovrapposizioni e confusioni.

Se un amico è qualcuno vicino al quale mi siederei se lo incontrassi all’aeroporto di Hong Kong alle tre del mattino, come apprendiamo dalle prime pagine, è chiaro che il concetto viene esteso a qualsiasi faccia nota, una cerchia di persone persino più ampia di quella delle “relazioni sociali stabili” che sembra la riformulazione più appropriata per quelli che Dunbar indica come “amici”.

Un concetto che cambia

Dunbar ha iniziato la sua carriera come primatolgo, studiando il comportamento delle scimmie più simili all’uomo; successivamente è passato alla psicologia evoluzionistica, e ai 150 amici è arrivato indagando la misura delle comunità umane studiate dall’etnografia, che raramente, o mai, superano queste dimensioni, che sono anche quelle dei villaggi rurali tradizionali.

Il suo libro è sovrabbondante di studi, soprattutto basati su tecniche di visualizzazione delle attività cerebrali, che dovrebbero dimostrare che anche in contesti più civilizzati continuiamo a muoverci in gruppi di amici (o di conoscenti, diremmo noi) di queste dimensioni.

Insaziabile quando si tratta di trovare riscontri sperimentali alle idee sostenute, il libro di Dunbar diventa evasivo quando si tratta di precisare l’estensione e il contenuto del concetto che dovrebbe orientare l’indagine, quello di amico e di amicizia, e soprattutto di marcare le differenze rispetto a relazioni sociali vicine ma non identiche. O non sempre identiche.

Il problema che non sembra sfiorare Dunbar è che l’amicizia è una nozione molto variabile nel tempo e nello spazio. A fronte di una miriade di studi di neuroscienziati, psicologi evolutivi, etologi, invano si cercherebbe di veder citato da lui qualche contributo da parte della sociologia o dell’antropologia (non diciamo della filosofia, che sarebbe pretendere troppo).

Amici e parenti

Lo si può verificare subito a proposito del rapporto tra amicizia e parentela. Due concetti che sono indubbiamente intrecciati in molte culture, e sono stati oggetto di studi sociologici classici, come quello di G.A. Allan, Sociologia della parentela e dell’amicizia.

Aristotele vedeva nella amicizia di parentela una delle forme fondamentali di amicizia, e in molte culture lontane dalla nostra la nozione di parentela fagocita quella di amicizia, mentre il contrario non accade mai. Ma già Georg Simmel notava che i rapporti di amicizia sviluppati nelle società moderne si svincolano dalle logiche di appartenenza e di tradizione che reggono le società non differenziate. Invece in Dunbar non si capisce mai se ci siano e quali siano le differenze, ragione per cui ci si trova di fronte ad affermazioni singolari, come quella che “la nostra preferenza va evidentemente ai parenti”, o che “siamo molto più disposti ad aiutare i parenti che gli amici”.

In questo modo viene del tutto trascurato un aspetto che appare molto importante nel concetto di amicizia quale la pensiamo oggi, ossia la sua revocabilità. Con i parenti possiamo litigare, ma restiamo parenti; laddove ogni vita appena un po’ lunga è costellata di amicizie finite, interrotte, tradite. Come nell’incipit fulminante del saggio di Jean-Sartre sull’amico Maurice Merleau-Ponty appena scomparso: “Quanti amici ho perduto che vivono ancora…”.

Questa revocabilità discende da un altro carattere dell’amicizia che Dunbar non vede, ossia il suo non aver bisogno di riconoscimenti istituzionali, cerimonie, carte bollate: un tratto che invece diventa il filo conduttore, ad esempio, del bel libro di Franco La Cecla Essere amici (Einaudi 2019).

Amici e sesso

Alle differenze tra amicizia e relazioni sessuali non va decisamente meglio. Anche qui, la strategia di Dunbar sembra essere quella di rinunciare a tracciare qualsiasi confine, con la conseguenza che quello che si dice sulle relazioni alla cui base c’è l’eros sembra dover valere tout-court per l’amicizia, e viceversa.

Il libro inizia stabilendo la necessità delle amicizie per una vita felice. Niente da obiettare, faceva così anche Aristotele nell’Etica a Nicomaco. Magari Dunbar lo fa in modo un po’ meccanico (“chi ha un amico felice nel raggio di un chilometro e mezzo ha il 25 per cento di probabilità in più di diventare felice”), ma non sottilizziamo.

Stupisce però che la prova ex contrario sia fornita dal fatto che la morte del coniuge spesso aumenta la possibilità che il coniuge sopravvissuto scompaia in breve volger di tempo, tra l’altro senza differenze sensibili tra i due sessi, del che ci permettiamo di dubitare dato che in Italia, ad esempio, le vedove sono circa cinque volte i vedovi.

Uomini e donne

In molti altri casi, invece, Dunbar ci tiene molto a rimarcare le differenze di comportamento tra uomini e donne, perché vuole sostenere che esse sono causate, in misura dominate, da fattori biologici ed evolutivi, quindi poco emendabili. Non disponiamo certo delle conoscenze di Dunbar sull’evoluzione, ma alcune spiegazioni ci lasciano qualche dubbio, per esempio che la difficoltà delle donne a parlare in pubblico e a farsi ascoltare sia dovuta al fatto che “hanno la voce flebile”.

Anche perché viene da uno studioso che accetta, senza batter ciglio, come attendibili i risultati di uno studio che mette a confronto un gruppo di studenti e uno di studentesse della stessa età e ravvisa l’elemento aggregante del primo nella “coscienziosità” e del secondo nel “nevroticismo”, inteso in senso tecnico come instabilità emotiva, o che cita (proprio lui che non utilizza mai testimonianze letterarie o artistiche) nientemeno che la Medea di Euripide per sostenere che nei rapporti di coppia le donne sono “meno indulgenti” degli uomini.

Sfumature perdute

Anche in questo caso, sembra che Dunbar perda la buona occasione per riflettere, piuttosto che sulle invarianti biologiche, sulle variazioni che i mutamenti nella condizione della donna hanno indotto nell’amicizia, per esempio rendendo più facile l’amicizia tra uomini e donne, e possibile che rapporti di amore fisico siano congiunti con caratteristiche proprie dell’amicizia.

Un libro di qualche anno fa di Joseph Epstein, Amicizia (Il Mulino, 2008), aveva osservazioni molto fini su questo aspetto, ed è probabile che il ruolo così centrale che in culture del passato aveva l’amicizia tra uomini, per esempio nella Grecia antica, fosse dovuto proprio alla condizione di inferiorità della donna, che rendeva implausibile, anche nella coppia, quel rapporto paritario che riteniamo giustamente una delle condizioni perché possa nascere l’amicizia.

Il problema, insomma, sembra essere sempre il medesimo. La sua formazione di studioso dei primati e di psicologo cognitivo spinge invariabilmente Dunbar ad accentuare, nell’amicizia, quei caratteri che dipendono dalla biologia, dalla natura e dalla evoluzione.

E nessuno nega che questi caratteri ci siano, e che le forme di vita associata su relazioni “amicali” siano presenti anche in alcuni animali non umani. Ma in questo modo Dunbar finisce per trascurare una circostanza di capitale importanza, e cioè che tra tutti quelli che C.S. Lewis (l’autore delle Cronache di Narnia) chiamava “i quattro amori” (che per lui erano l’affetto per i familiari, l’eros degli innamorati, l’amore divino e appunto l’amicizia), proprio quest’ultima relazione sociale è la meno istintiva, organica, biologica e indispensabile. E anche quella più ricca di sfumature. Per le quali Dunbar non sembra avere alcuna inclinazione.

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