Ci sono libri che rischiano di arrivare fuori tempo massimo, come i ciclisti che al Giro d’Italia corrono per la maglia nera. Questo Heidegger e il nuovo inizio di uno dei nostri pensatori più noti e ascoltati, Umberto Galimberti, è stato pubblicato poco tempo fa ma di anni ne dimostra, a dir poco, quaranta.

A parte qualche spruzzata di aggiornamenti inevitabili, per esempio sulle opere del filosofo tedesco abilmente centellinate e pubblicate molto dopo la morte di lui dagli eredi e dai curatori, sembra arrivare dritto dritto dalle discussioni che si facevano negli anni Ottanta, sull’onda della ripresa di interesse legata appunto alla scomparsa di Martin Heidegger, che risale al 1976.

E quelle discussioni le ripropone una per una, senza problematizzazioni e senza approfondimenti, come se la letteratura ipertrofica che si è accumulata sul filosofo non avesse cambiato nulla, e soprattutto come se tutto quello che si è detto non invitasse a riflettere un po’, a fare qualche distinguo, a evitare di ripetere per la centesima volta le stesse parole, le stesse formule di rito, e non imponesse di chiarire parecchie oscurità.

L’adesione al nazismo

Di Hermann Heidegger - Heidegger Archive (Foto Wikipedia)

Naturalmente, trattandosi di Heidegger, non si può evitare di imbattersi nella annosa questione della sua adesione al nazismo. Sulla faccenda sono state pubblicate decine di libri, riscavati documenti, ascoltati testimoni. Insomma, sembra che il materiale per farsi un’opinione in proposito non scarseggi.

Ma Galimberti evidentemente pensa che sbilanciarsi troppo sarebbe pericoloso, e quindi adotta una soluzione salomonica, quella di riportare le opinioni di chi ha scritto sull’argomento, pro o contro, a costo di assomigliare a quello che diceva: c’è chi dice che Napoleone è morto; c’è chi dice che Napoleone è vivo; io per me non credo né l’una cosa né l’altra.

Ma dietro questo apparente agnosticismo che lascia la parola a quello che hanno detto gli altri, fa capolino la convinzione di Galimberti, che tanto per cambiare è sempre quella cara ai devoti di Heidegger, ancora convinti che per salvare il loro pensatore preferito debbano sempre denazificarlo un po’: come se per riconoscere che l’Emilio è importante per la pedagogia si dovesse negare che Rousseau ha messo i figli all’orfanotrofio.

Infatti alla fine del capitolo dove ha allineato le tesi di Farias, Fédier, Faye, Vattimo, Ferraris, Di Cesare, ancora Vattimo, Trawny, Marini, von Hermann, Gadamer e, dulcis in fundo, Erasmo Silvio Storace, Galimberti se ne esce con questa sentenza: «A questo punto, al di là di ogni disputa relativa alla presunta adesione di Heidegger al nazionalsocialismo e al diffuso antisemitismo…».

Pensate: uno diventa rettore dell’università dopo la presa del potere di Hitler e in sostituzione del precedente rettore che si era rifiutato di far affiggere un manifesto contro gli ebrei; scrive un discorso vergognoso in cui afferma che il Führer, e solo il Führer, può insegnare cosa pensare, si esalta per le «meravigliose mani di Hitler», e siamo ancora al “presunto nazista” e alla “presunta adesione al nazismo”.

Di questo passo, perché non parlare della “presunta” adesione al fascismo di Giovanni Gentile, che dopotutto vedeva nel fascismo il coronamento del Risorgimento italiano?

Quel “diffuso antisemitismo”, poi, è una perla, perché non si capisce se l’antisemitismo è diffuso nei testi e nel pensiero di Heidegger o era diffuso nella Germania hitleriana e pre-hitleriana, il che è un’ovvietà storica, ma notate il sapore neanche troppo larvato di attenuante che assume collocato così nel discorso: l’antisemitismo era diffuso, e quindi era antisemita anche Heidegger. Ma solo un po’, perché anche sull’antisemitismo Galimberti si lava le mani con la stessa opzione pilatesca: c’è chi dice che Heidegger era antisemita, chi dice che non lo era, chi dice che lo era ma di un antisemitismo metafisico, e non si capisce se l’antisemita metafisico sia meglio o peggio dell’antisemita empirico.

Il nuovo inizio

Foto AGF

Se Galimberti è così poco chiaro e così poco nuovo su questioni certamente gravi, ma che sono comunque dei fatti che si possono accertare storicamente, figuriamoci quando si passa al piano delle idee.

Per esempio, prendiamo la storia dell’essere che costituisce il filo conduttore di gran parte del libro, al punto che esso prende il titolo proprio dal “nuovo inizio” di quella storia, profetizzato da Heidegger.

Da un certo punto di vista, sembra l’ennesima filosofia della storia partorita da un filosofo tedesco, con la variante di una decadenza più che bimillenaria che dopo il “primo inizio” della filosofia presocratica procederebbe di oblio dell’essere in oblio dell’essere, a partire da Platone fino ad arrivare a Nietzsche. Ma anche intesa così, si vorrebbe capirne qualcosa di più.

Non c’è dubbio che dobbiamo a Heidegger alcune straordinarie interpretazioni delle grandi opere filosofiche del passato, ma tutto questo nel libro di Galimberti diventa la classica notte in cui tutte le vacche sono nere: Aristotele «non modifica Platone»; il pensiero moderno è «una continuità che va da Cartesio a Hegel passando per Leibniz e Kant» e infine il «segreto» di Nietzsche è Hegel.

Del “nuovo inizio” parlano in particolare i Contributi alla filosofia, un insieme di testi che Heidegger scrisse tra il 1936 e il 1938 ma che destinò a essere pubblicati postumi, nel centenario della sua nascita. A questa messa in scena aggiungete che il testo ha un titolo per iniziati, Dall’evento, che contiene sezioni dal titolo “i venturi” e “l’ultimo dio”, che usa un linguaggio apodittico, che non lascia nessuno spazio a un procedere argomentativo, e non è difficile immaginare che se ne vorrebbe capire un po’ di più.

Ma Galimberti, al solito, fa un riassuntino delle cinque o sei sezioni dell’opera, abbondando in equivalenti tedeschi dei termini dati in traduzione, forse per omaggiare la convinzione di Heidegger che solo in greco e in tedesco si possa filosofare, e dal riassunto si capisce soltanto che del nuovo inizio nulla è dato sapere. Non è colpa sua, certo. Però gli interpreti più onesti lo hanno riconosciuto.

Franco Volpi, uno studioso scomparso prematuramente qualche anno fa, e che aveva tradotto parecchie opere di Heidegger e scritto molto su di lui, di fronte ai Contributi scrisse: «Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, ma l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critico che è stata tributata a Heidegger e che ha prodotto tanta scolastica».

I curatori dell’opera tedesca non gradirono. Ma non deve aver gradito neanche Galimberti, che cita a destra e a manca interpreti di Heidegger minori e minimi ma Volpi non lo cita mai, se non come co-autore di un’intervista a Gadamer.

Critica della tecnica

Va bene, si dirà, ma quello che interessa a Galimberti è lo Heidegger critico della tecnica moderna, della riduzione della natura a ente manipolabile, il filosofo che ha denunciato il «deserto che cresce» nell’impianto tecnico della società occidentale.

In effetti da sempre Galimberti sostiene che il nazismo avrebbe svelato la natura del procedere tecnico che poi si è mondializzato, dimodoché l’organizzazione tecnica della produzione che è diventata la nostra realtà non sarebbe altro che un’estensione su scala larghissima di quello che il nazismo aveva mostrato.

Più o meno, è quel che sosteneva Heidegger quando dichiarava che l’agricoltura meccanizzata è la stessa cosa della produzione di cadaveri nelle camere a gas, una frase che a noi pare agghiacciante, ma che i difensori d’ufficio di Heidegger hanno usato in passato per sostenere che la critica di Heidegger alla tecnica è anche una critica al nazismo: un libro di un germanista tedesco dal nome italiano, Silvio Vietta, negli anni Ottanta si intitolava proprio così: La critica di Heidegger al nazionalsocialismo e alla tecnica.

Anche in questo caso, porsi qualche domanda aiuterebbe a non ripetere tesi che ci appaiono oggi in tutta la loro portata minimizzatrice. Per esempio, come valutare le molte prese di posizione di Heidegger degli anni Trenta e soprattutto dei primissimi anni Quaranta da cui traspare un sincero entusiasmo per la potenza tecnica dispiegata dal Terzo Reich?

Come dimenticare gli sdilinquimenti per la «motorizzazione della Wehrmacht» (che, tanto per cambiare, sarebbe un “atto metafisico” che non ha a che fare col “tecnicismo”) e il calcio dell’asino alla Francia che, sconfitta nel 1940, dimostrerebbe il fallimento del progetto di oggettivizzazione della natura inaugurato da Cartesio?

E non sarebbe il caso di prendere posizione rispetto al completo appiattimento di tutte le forme di organizzazione politica nell’indistinto, che consegue dalla posizione di Heidegger, per cui ogni sistema politico diventa equivalente a ogni altro rispetto al dilagare della tecnica?

O ancora: fino a che punto la concezione hiedeggeriana della tecnica, che evidentemente ha presente la tecnica meccanica, industriale, invasiva, tipica della prima metà del Novecento, può ancora essere utile per pensare la smaterializzazione e l’alleggerimento post-industriale della società digitalizzata?

Troppe domande, evidentemente, per quello che, anche se firmato da un autore famoso, si rivela alla fine per quello che è, cioè un Bignami di filosofia heideggeriana, una guida alla lettura senza nessuna pretesa di originalità, uno di quei libri che un tempo si sarebbero onestamente appaltati a qualche studioso alle prime armi. Col vantaggio, magari, che il giovane sarebbe stato più attento alla confezione del libro, evitando di ripetere la stessa frase sulla matematica in tre capitoli diversi, la stessa frase sul linguaggio a una pagina di distanza, e il riferimento a un libro pubblicato nel 1956 come a un libro pubblicato «oggi». Ma chi si occupa del destino dell’occidente non può certo prestare attenzione a queste minuzie.

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