Il più grande giornalista italiano vivente dice che per capire cosa è accaduto a Garlasco bisogna leggere Piero Chiara, lo scrittore che meglio ha saputo raccontare il mistero della provincia italiana. Una scheda di Giovanni Raboni su Chiara dice: «Malinconico umorista, storico di cupidigie e di brividi provinciali, cronista di spassi crudeli, oblomoviane pigrizie e mostruosità da tre soldi». È qui la soluzione del caso? Torna la rubrica di cenette sentimentali e settimanali con i lettori
Domenica scorsa
Nel pomeriggio il più grande giornalista italiano vivente (ma è più di un giornalista è un antropologo, un Lévi-Strauss dei costumi contemporanei) mi telefona per un confronto su cos’è e come si fa il vero Martini, tema affrontato nel numero scorso con la partecipazione straordinaria di Luis Buñuel. La telefonata è divertente, ma pure lancinante e malinconica perché lui il Martini non può permetterselo più, per ragioni di fegato.
Approfitto di sentire il più grande giornalista italiano vivente per chiedergli un parere sulla follia del giallo di Garlasco che va ormai in onda da settimane a reti unificate su tutto il territorio nazionale. È il definitivo avvento del famigerato pensiero unico affogato in salsa noir? Cosa successe veramente? Mi risponde che per capire cosa è accaduto a Garlasco bisogna preliminarmente leggere Piero Chiara, lo scrittore che meglio ha saputo raccontare il mistero della provincia italiana.
Terminata la telefonata ripesco in archivio una scheda di Giovanni Raboni su Piero Chiara: «Malinconico umorista, storico di cupidigie e di brividi provinciali, cronista di spassi crudeli, oblomoviane pigrizie e mostruosità da tre soldi».
È qui la soluzione del caso? Comunque, da come si è ingarbugliata la vicenda, le sorelle Cappa sono diventate una specie di sorelle K.
Prima di addormentarmi, forse per reazione al chiacchiericcio assordante su Garlasco, medito sulle parole che Mogol fa dire ad Adriano Celentano nella bella canzone L’arcobaleno di Gianni Bella: «E il mio discorso più bello e più denso / esprime con il silenzio il suo senso».
Proprio mentre mi si stanno chiudendo gli occhi, mi viene in mente un consiglio dell’ispettore capo Morse, l’eroe dei romanzi di Colin Dexter. «Uno dei trucchi per risolvere un caso di omicidio è non credere mai a nessuno».
Lunedì
Posta arretrata. Scrive Veronica Pazzaglia: «Che bello leggerla di nuovo in versione cartacea! Mi spiace essermi persa le puntate precedenti, ma prendo come buon auspicio il fatto che ho ricominciata a seguirla il primo giorno d’estate. Se è vero che il nostro tempo non è attrezzato per le leggende, come lei scrive, non si può negare che le sue pagine sono già leggenda… Possiamo sperare in una lista di libri per l’estate la prossima settimana? Che bei tempi quelli della Trilogia del Male di Costantini e La verità e altre bugie di Sasha Arango (tutti suoi consigli)!».
Lei è davvero cara, gentile Veronica, e preparerò una lista, anche se trovo sempre più azzeccata l’antica e saggia regola di vita (meravigliosamente inglese, reazionaria e aristocratica) che dice: «Bere vino vecchio, bruciare legna vecchia, leggere libri vecchi».
Martedì
La mia anima sciampista stravede per La trama dell’invisibile (Mondadori) di Anna Katharina Fröhlich, rievocazione della sua storia d’amore con Roberto Calasso.
Come Petrarca nel Canzoniere, Anna Katharina ricorda con precisione il giorno, il mese, l’anno, la stagione, il tempo, l’ora e il punto del suo primo incontro con l’editore e scrittore.
Era la mattina del 13 ottobre 1995, Padiglione 4 della Fiera del Libro di Francoforte. Lei, 23 anni, «abito di lana verde scarabeo lungo fino a terra», è in compagnia della madre, «gonna nera che dai fianchi ricadeva in tre balze fino a sfiorare i tacchi delle scarpe». Entrambe portano ampi cappelli. Cosa fanno alla Fiera di Francoforte?
La mamma (come in un romanzo di Jane Austen!) sta cercando la persona giusta (un intellettuale, preferibilmente) affinché la figlia abbia fortuna nel mondo. Individua il soggetto giusto in Calasso, con il quale attacca subito bottone. Il patron di Adelphi non resta insensibile al fascino di Anna Katharina: «In una lettera, tempo dopo, mi scrisse che la mia apparizione era stata per lui un’epifania».
La stessa sera, la nostra eroina si reca da sola al Jimmy’s Bar dell’Hotel Der Hessischer Hof: maglione nero, gonna nera, «un velo di pizzo dello stesso colore annodato sotto il mento». Look concordato con la mamma e l’amica Lis Hauber, che all’epoca (ci avverte l’autrice) gestiva la foresteria della Deutsche Bank.
Profumata di Shalimar (la cui quintessenza, racconta la Maison Guerlain, che lo produce, ha «una firma olfattiva unica» un «carattere voluttuoso e sensuale», grazie alla sapiente alchimia di Bergamotto, Iris, Gelsomino, Rosa, Vaniglia e Fava Tonka), Anna Katharina scende la stretta scala che conduce al Jimmy’s Bar e pensa: «All’inizio di una storia d’amore, non c’è nulla di più eccitante dei passi che si fanno verso una porta chiusa, dietro la quale è in attesa l’uomo o la donna da conquistare».
Eccola finalmente mettere piede nel Jimmy’s Bar: «Calasso sedeva a un tavolino con un gin tonic».
Dissolvenza (mia) sull’incipit di Goldfinger, amatissimo da Umberto Eco: «Seduto in fondo alla zona partenze dell’aeroporto di Miami con due bourbon doppi in corpo, James Bond pensava alla vita e alla morte».
Alle tre del pomeriggio sono a Brescia per un intervento al laser sull’occhio destro. Sarà La trama dell’invisibile l’ultima cosa che avrò potuto leggere?
Mercoledì
Non posso leggere, nemmeno i libri vecchi del saggio aristocratico inglese. E avrei tanta voglia di Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders di Daniel Defoe, il romanzo con la trama più bella del mondo. Riesco appena a sbirciare con un occhio solo il lunghissimo, meraviglioso titolo che ne è l’esatta, avvincente sinossi: «Nacque a Newgate, e durante una vita d’incessante varietà, per sessant’anni, esclusa l’infanzia, fu per dodici anni puttana, cinque volte moglie (una del suo stesso fratello), per dodici anni ladra, e per otto una deportata criminale in Virginia, e infine, divenuta ricca, visse con onestà e morì da penitente». Ecco un romanzo che non si è fatto mancare nulla.
Giovedì
Silvano Calzini torna sul titolo di questa rubrica. Ricordo che i Moretti citati sono i coni ricoperti di cioccolato (il prototipo del Magnum, se volete un riferimento contemporaneo), specialità della gelateria Zorro a Cosenza, di cui ero ghiotto nella mia infanzia e adolescenza e che per me hanno la stessa virtù delle madeleinette di Proust: mi rendono indifferenti «le vicissitudini della vita».
Scrive Calzini: «Nella mia personalissima genealogia gelataria il Magnum non è altro che la versione sfatta e imbolsita, come la sora Cecioni, dell’elegante e minimalista, come Françoise Hardy, Mottarello. Quello che da bambino mi compravano al defunto negozio Motta di via Dante a Milano prima di andare al parco Sempione dove giocavo a pallone con i figli del grande Lennart Skoglund. Propongo di andare al bar Skoglund di via Lorenteggio, tuttora gestito da Giorgio Skoglund, uno dei succitati figli di Lennart, e vedere se hanno ancora il Mottarello».
Proposta accettata.
Venerdì
Paolo Fai scrive: «Stavo “sbrattando” (virgoletto perché verbo manzoniano) una delle tante pile di riviste e giornali che affaticano le fondamenta e i pilastri della mia casa. Da un mazzo di quella carta tra patinata e ruvida mi scivola a terra un Sette del 14 ottobre 2016, da cui occhieggia, in un riquadro in basso, il volto di Paolo Conte.
Che bella e felicemente lunga intervista, caro D’Orrico (tra l’altro, non mi spiego perché quella rivista sia rimasta appartata tra altre generiche, perché giornali e riviste con articoli sul Maestro di Asti li raccolgo in un faldone apposito).
La parte che più mi ha intrigato è stata quella sulle canzoni maledette (Ma l’amore no è uno dei capolavori assoluti delle canzoni italiane e non solo)».
Ripesco in archivio la mia vecchia intervista a Paolo Conte da lei così fortunosamente, quasi archeologicamente, recuperata e mi viene l’idea di fare un esperimento. Darò da leggere l’intervista all’Intelligenza Artificiale assieme a un’intervista contemporanea (una a caso: quella al grande Adriano Panatta di Aldo Cazzullo uscita sul Corriere) e chiederò all’IA quale le piace di più. Non è che oltre a bere vino vecchio, bruciare legna vecchia, leggere libri vecchi, conviene anche leggere interviste vecchie? Il responso la prossima settimana.
P.S. L’occhio è salvo. Posso preparare la lista di libri per Veronica.
per scrivere ad Antonio D’Orrico – che risponde – la mail è lettori@editorialedomani.it
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