Un tour europeo Dreamland: Greatest Hits Live iniziato a Roma a metà giugno scorso, la pubblicazione del cofanetto Smash che raccoglie in sei vinili una cinquantina di singoli usciti tra il 1985 e il 2020, la riedizione del singolo Suburbia con i remix storici di Arthur Baker e i rumori delle rivolte di periferia, ci ricorda che le prime canzoni del duo inglese Pet Shop Boys furono composte nel 1983 – quarant’anni fa – in uno studiolo a Camden Town, Londra.

It’s a Sin, Rent, Opportunities, Love comes quickly, firmati dalla coppia Neil Tennant/Chris Lowe, sarebbero diventati di lì a poco grandi classici del pop internazionale. West End Girls, trasfigurazione noir della nuova vita notturna a Soho, che fu la loro prima hit, ebbe un destino poco più tortuoso.

Tennant, il cantante, laureato in storia moderna e redattore della rivista musicale per ragazzini Smash Hits, durante un viaggio di lavoro a New York contattò e convinse Bobby Orlando a produrre la canzone. Uno degli inventori della cosiddetta hi-nrg, la musica da ballo elettronica condotta dal  pulsare veloce dei sequencer, derivata dallo stile di Giorgio Moroder e amatissima nelle discoteche gay, Orlando era titolare di un piccolo studio, aveva lavorato con la drag queen Divine e con le Flirts, un trio femminile stile italo-disco di cui Chris Lowe era grande fan.

Dead end world 

Per musicisti sofisticati come Tennant e Lowe la scelta era quanto meno snob, comprensibile per il fatto che il suono più alla moda a Londra era allora dettato dai dj dell’Heaven, leggendario club gay in Charing Cross e culla segreta del pop inglese anni Ottanta. Bobby O portò a termine egregiamente il lavoro. La versione di West End Girls che conosciamo fu realizzata però l’anno dopo con il marchio della Emi e il produttore americano Steven Hague, mago dei nuovi strumenti digitali. Andò al primo posto delle classifiche in tutta Europa, Italia compresa. Da noi ispirò a sua volta altri classici disco come I like Chopin di Gazebo.

Per ammissione di Tennant nel testo di West End Girls c’è anche uno dei primi tentativi di fare del rap alla maniera di Afrika Bambaata o Grandmaster Flash – pionieri dell’hip-hop, altra passione snob di allora; oggi l’hip-hop è l’ingrediente fondamentale di tutta la musica pop. Nella antologia 100 Lyrics and a poem pubblicata da Faber&Faber nel 2018, il cantante spiega inoltre che la struttura della canzone è ispirata alla Waste Land di Eliot, un montaggio di voci differenti rubate dai film e dalla strada che inizia con una frase di James Cagney («A volte meglio morto/ Hai una pistola in mano, la punti alla testa») e finisce citando il viaggio di ritorno di Lenin in Russia «dal Lago di Ginevra alla Finland Station» (dei suoi studi universitari il cantante manterrà una passione per la storia russa e sovietica che fa spesso capolino nelle sue canzoni). 

Il ritornello celebra come in un musical l’incontro notturno tra i ragazzi dell’East End ancora povero e derelitto e le ragazze dei quartieri ricchi. «Non abbiamo passato/ non abbiamo futuro», continua la canzone. Siamo nel pieno dell’èra Thatcher, è un dead end world.

Raccontare storie

Nato a Nottingham e venuto a Londra a studiare, all’epoca ventisettenne Tennant era abbastanza grande da aver conosciuto bene il folk psichedelico anni Sessanta, David Bowie, il primo punk. E i musical ascoltati sul giradischi dei suoi genitori, My fair lady, le canzoni dell’amatissimo Noel Coward. Scrisse Opportunities come fosse un piccolo numero teatrale: «Io ho il cervello/ tu hai il look/ insieme faremo un sacco di soldi (...) Ci sono opportunità/ e se non ci sono, ce le fabbrichiamo». «Il protagonista», spiegherà, «ha molto in comune con Fagin di Charles Dickens, incoraggia il suo giovane complice a una vita criminale».

Con la collaborazione di Chris Lowe che si occupa della costruzione musicale, usa una scrittura semplice ma sofisticata. Distingue l’autobiografismo di maniera del rock di allora (che odia, di un odio totalmente punk) dalle canzoni che raccontano storie, prestano la voce a personaggi differenti. Rent è il ritratto di un rapporto mercificato da sugar daddy diremmo oggi, nel quale si fa strada il sospetto che l’amore percorra strade tortuose e perverse:  «Non voglio niente/ Tu compri quello che mi serve/ sei attento alle mie speranze e ai miei sogni/ Guarda il denaro che abbiamo speso/ Io ti amo/ Tu paghi l’affitto». Tennant aggiunge che i personaggi potrebbero essere un ricco politico americano e la sua amante, ma non sa «chi ne esca meglio» dalla situazione.

Siccome per il rap (e la disco) non ha il fisico e neppure la voce canta con uno stile piano e impassibile, ispirato lontanamente alle performance dei Kraftwerk, senza mai neppure sorridere. Nei playback in tv il suo socio Chris Lowe, mancato architetto, è ancor più fisso di lui, se va bene muove un dito solo sulla tastiera. I Pet Shop Boy sono ironici – dicono – scrivono metacanzoni. 

Hanno un «suono di plastica» e una «voce colloquiale» scriverà il sociologo Simon Frith in un lungo e prestigioso saggio del 1988 che pone la loro musica nello «spazio psichico» in cui «si confondono il consumo e l’autostima»: descrizione perfetta dei vuoti emotivi di yuppie, carrieristi, mezzi criminali e altre figure iconiche degli anni Ottanta. La formula delle loro canzoni “satiriche” si precisa nello scrivere testi che cantano cose che di solito non vengono mai cantate, oppure romanticizzano situazioni buffe o crudeli. Sequencer e campionatori inseguono l’abbandono estatico della musica da ballo: all’italo-disco e all’ hi-nrg degli inizi seguirà il suono della house music e della techno.

Adulti da sempre

Fino ai tempi nostri. In 40 anni hanno pubblicato 29 tra album originali e raccolte, con packaging  minimalisti e titoli di una parola soltanto. Hanno scritto un musical (Close to Heaven), balletti, persino una colonna sonora per la Corazzata Potëmkin. I loro primi videoclip li ha diretti Derek Jarman.

Mai nostalgici di sé stessi né del loro mito. I Pet Shop Boys non invecchiano mai, forse perché nostalgici e adulti lo sono stati sempre. Love is a bourgeois construct, una delle loro ultime hit, è ispirata a un racconto di David Lodge. Una professoressa femminista decostruzionista disperata per essere stata abbandonata da un ingegnere cerca di convincersi che l’amore è «un sovrastruttura borghese». Sullo sfondo suona una versione sintetica del King Arthur di Henry Purcell. La «pompa e circostanza» del barocco inglese, il sinfonismo di certe introduzioni orchestrali del pop anni Sessanta, una tendenza a scrivere in tonalità minore attraversano gran parte delle loro canzoni.

Nascoste nei testi le citazioni più folli, dal Casanova di Schnitzler (Casanova in hell) alla vita di Shostakovic (My October Symphony), le poesie di Anna Achmatova e la fantascienza distopica di Zamjatin (Integral), spesso nascoste in pochissimi indizi.

Temporalità queer

Soltanto nel 1993, con un’intervista al mensile Attitude, il coming out di Neil Tennant svelò quello che era già piuttosto chiaro dietro l’uso del linguaggio criptato della discomusic. Uno dei protagonisti delle canzoni dei Pet Shop Boys racconta il romanzo di formazione della prima generazione di maschi gay che negli anni Ottanta smettono definitivamente di nascondersi. I dolori d’amore, le sottigliezze dandy, l’incubo e la tragedia dell’Aids.

Un autobiografia divertente, appassionata, qualche volta malinconica, dagli echi per noi tondelliani («Domino dancing è così frocio che mi fa ridere», scrisse una volta Pier senza peli sulla lingua).  «Noi non ci siamo mai annoiati perché non eravamo mai noiosi», canta ancora Neil Tennant in Being Boring, una delle sue canzoni più toccanti, il finale dei concerti dell’ultima tournee. Dedicata a un amico morto di Aids e profondamente generazionale, la canzone unisce lo spirito degli anni Venti fitzgeraldiani – «being boring» era una espressione di Zelda – ai Settanta in cui si lascia casa e famiglia con uno zaino e molta trepidazione, agli anni Novanta di case in affitto e posti stranieri: «Non ci siamo mai preoccupati di fermarci, né pensavamo che il tempo avrebbe potuto avere una fine».  Echi della “temporalità queer” teorizzata da Jack Halberstam capace di «rompere la norma del tempo occidentale», fragile e esaltante come una canzone pop, e del suo venire a patti inevitabilmente con la vita.

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