Qualcuno ha scritto che Steven Spielberg, come E.T., finalmente telefona a casa. La verità è che se il suo ultimo The Fabelmans viene accreditato a furor di popolo come miglior film dei prossimi Oscar, ventotto anni dopo Schindler’s List e in coda a troppe trombature epocali, è perché squarcia il velo spesso che da sempre nasconde l’uomo, il private Spielberg, dietro il regista.

Siamo tutti invitati a entrare nella scatola nera di una prodigiosa macchina da sogni che da mezzo secolo colonizza l’immaginario mondiale. Chi si chiedeva quali sorgenti alimentassero il suo universo di squali, dinosauri, archeologi spericolati, misticismo fantascientifico e alieni smarriti qui troverà il passepartout. Il più popolare storyteller vivente ha deciso di raccontare la storia sua propria. My life was saved by rock and roll, cantava Lou Reed. Spielberg racconta in dettaglio perché la sua vita è stata salvata dal cinema. E lo fa rovistando nella storia di famiglia, fra traumi, segreti, scoperte e divoranti passioni squisitamente autobiografici.

Lo fa alla soglia dei 76 anni, ultimo degli autori da cui potevi aspettarti un viaggio intimo nel proprio passato. Roma di Alfonso Cuaròn, Belfast di Kenneth Branagh, Licorice Pizza di P.T. Anderson, Armageddon Time di James Gray, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino sono altrettanti casi recenti di autobiografia cinematografica.

Catturare il proprio passato è il modo migliore per esorcizzarlo. Questo però non è solo un Bildungsroman. In controluce è anche un saggio sul potere del cinema stesso, su quell’alchimia misteriosa che consente di scavare nei recessi della realtà o viceversa di trasfigurarla a piacere. Ed è come se l’urgenza di confrontarsi col pubblico avesse stravolto il suo protocollo abituale. Nemico giurato dei festival, Spielberg ha presentato in sequenza il film a Toronto, alla Festa del Cinema di Roma in cogestione con Alice nella Città, alla vetrina del Cairo.

Paura e desiderio

«I film sono sogni che non dimenticherai mai», promette mamma Mitzi (Michelle Williams, anche lei in odore di Oscar) a Sammy, alter ego di Spielberg bambino in procinto di assistere al primo film della sua vita, Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille. È il 10 gennaio 1952. Le due anime della famiglia sono già dichiarate: papà Fabelman, ingegnere informatico uggiosamente pignolo (Paul Dano) cerca invano di combattere le paure del figlio con astruse spiegazioni tecniche.

Lui è la Prosa, la madre la Poesia. Ma il catastrofico scontro ferroviario del film è un trauma, lascia nel piccolo un codazzo di incubi. È come il treno-shock dei fratelli Lumière agli albori del cinema. Ricreare a ripetizione la scena col proprio trenino elettrico è il suo espediente per combattere la paura. Proporgli di catturare lo schianto con la cinepresa domestica a 8 mm è l’espediente materno per evitare che sfasci il giocattolo. Paura e desiderio: le due pulsioni-chiave del cinema.

Era, per niente a caso, il profetico titolo del primo film di Stanley Kubrick. È il battesimo del futuro film-maker: un hobby secondo il padre, che lo sogna avviato a un lavoro «utile e reale, non immaginario». Ma nel derby domestico fra arte e scienza, per la creativa, esuberante madre pianista, che ha rinunciato ai concerti per la famiglia, quel fantasioso rampollo fa squadra con lei.

Spielberg ha ricordi precisi del suo apprendistato: montagne di carta igienica per travestire le sorelle da mummie, filmini «di paura», rievocati con quella palette di colori sbiaditi che è la cifra degli anni Cinquanta. Sono nomadi i Fabelmans, traslocano a Phoenix dietro al capofamiglia e al suo inseparabile amico e collega Bennie (Seth Rogen), per tutti “zio Bennie”, che è tanto giocoso e brillante quanto Burt è monotono. John Ford, con L’uomo che uccise Liberty Valance, scatena la voglia di western.

Con gli amici boy scout Sammy improvvisa un film bellico che anticipa, per autoironica civetteria, le inquadrature di Salvate il soldato Ryan. Monta da esperto alla moviola, disegna storyboard, provvede alla colonna sonora con un vinile sul giradischi. Ognuno troverà dettagli speciali per cui palpitare. La mia personale emozione è scattata per le musiche de I magnifici sette sotto il western home made. Nulla è casuale. Il ragazzino ha trovato il suo rifugio privato da 24 fotogrammi al secondo.

Un altro trauma

Ma sarà ancora il cinema a scatenare il secondo trauma. Montando un filmino sulle vacanze in camping, Sammy scopre di aver ripreso per caso inequivocabili gesti d’amore tra sua madre e “zio Bennie”. È il Michelangelo Antonioni di Blow Up che fa capolino: come scoprire il serpente annidato nell’Eden, la minaccia in agguato dietro una facciata serena. Quando Spielberg filmerà la corsa dei ragazzini in bicicletta di E.T. la condirà col sapore di quell’infanzia interrotta, di quel castello di certezze franato.

Entrambi i genitori del regista, Leah e Arnold, sono morti in questi ultimi sei anni, e a loro il film è dedicato, ma un look back in anger come The Fabelmans non poteva maturare mentre erano in vita. È una sorta di psicoterapia avviata con Tony Kushner, inseparabile cosceneggiatore da un ventennio, quando la pandemia ha fatto da catalizzatore a nuovi interrogativi esistenziali.

A Toronto nel settembre scorso Spielberg ha definito Kushner «il mio terapeuta». E le sedute devono essere state parecchio impegnative, se Kushner si è rammaricato per celia: «Avrei dovuto farmi pagare a tariffa oraria». C’è un retroterra freudiano dietro le storie di E.T. e del Peter Pan genitore workaholic di Hook - Capitan Uncino che in parte il regista aveva già svelato in passato, parlando del sofferto divorzio dei genitori e dei suoi contraccolpi, della fuga nell’immaginario alla ricerca di un fratello maschio sognato e di un padre che sembrava perduto.

Poche battute fulminanti che Spielberg affida all’anziano prozio Boris (Judd Hirsh, portentoso) condensano la dannazione speciale riservata agli artisti. «Tu ed io siamo dei tossici, l’arte è la nostra droga – gli predice il pittoresco parente, che ha lavorato nel circo e nel cinema muto – famiglia e arte ti strapperanno in due. E l’arte ti dà corone in cielo ma ti lascia solo sulla terra».

La rivincita

Altro stato, altra età, l’adolescenza, nel terzo capitolo. Sammy ha promesso a Mitzi di serbare il silenzio sulla sua relazione, ma in California, dove Bennie non li ha seguiti, lei precipita nella depressione. Il divorzio è nell’aria. Nella vita reale Bennie è diventato il secondo marito di Leah Spielberg, nemesi degna del principe Amleto.

Ma il ragazzo patisce anche il bullismo antisemita dei compagni di college, biondi ariani statuari pronti alla rissa. «Ci hanno paracadutati in una terra di persone alte come sequoie giganti», dice alle sorelle. Il Big Bang familiare gli ha fatto abbandonare la cinepresa e le sue insidie, ma accettando di riprenderla in mano su richiesta di una girlfriend in trip religioso (è spassosa la cotta per un Gesù sex symbol) ne scopre, in positivo stavolta, i potenziali superpoteri.

È lo strumento della rivincita: Davide contro i Golia muscolari, arroganti e abbronzati. Quando però, sgomento, giura di non farne più uso «a meno che non ci faccia un film, cosa che non farò mai e poi mai», la risata di noi spettatori esplode incontenibile. Appena un anno dopo, Danny-Steven lascerà gli studi per farsi le ossa nelle serie tv.

E l’ultimo colpo d’ala è purissimo genio. Attenzione spoiler, per chi lo teme! C’è un faccia a faccia di pochi secondi con l’idolo di una vita, «il più grande regista di tutti i tempi», che è poi David Lynch truccato da John Ford, con tanto di benda sull’occhio. Giusto il tempo, per il novizio, di incassare la regola d’oro del Grande Vecchio sulle inquadrature: «Quando piazzi l’orizzonte in basso è interessante. Quando piazzi l’orizzonte in alto è interessante. Quando sta in mezzo è una palla infernale».
 

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