Prima della pandemia, ho partecipato a un festival della cucina in Danimarca. Da paese con la cucina peggiore del mondo (mangiavano perlopiù flaccido pane a cassetta con margarina e sgombri affumicati o salame), la Danimarca ha ormai stabilmente acquisito lo status di regno dell’alta gastronomia, con l’invenzione della nuova cucina nordica, e con il ristorante più famoso del mondo, il Noma di René Redzepi, di cui sono leggendarie le liste d’attesa mai inferiori all’anno. Al gastroconvegno, si elogiava questa rinascita danese dovuta ai cuochi di tendenza, ai foodies, ai coltivatori e agli allevatori bio, all’invenzione del foraging (cuochi che vanno per boschi col cestino di paglia a caccia di erbe, licheni, tuberi e funghi commestibili). Tutto questo, si diceva, sommamente utile a contrastare la crescente obesità dei danesi. Non mi era ben chiaro il nesso, perché di solito la ciccia si combatte soprattutto stando lontano dalle prelibatezze ancorché bio, mangiando misere porzioni di verdura scondita con carne bianca o pesce bollito. Invece, secondo gli appositi studi commissionati, l’obesità dei danesi era causata dal cibo da asporto. I giovani non si sedevano più a tavola, ma compravano trucide vaschette di noodles al glutammato di sodio, cartoni di pizze elastiche e altre simili nefandezze e andavano a rinchiudersi in camera da letto davanti a uno schermo, dove trangugiava la cena.

In alternativa, il pasto veniva consumato sul divano, davanti alla tivù. Nel nostro mondo occidentale, pare che ormai la scena alimentare non sia differente, nonostante la quantità di programmi televisivi, tutorial e scenette dei social che insegnano a cucinare. La pandemia, che sembrava essere il trionfo del panificatore casalingo, è stato invece un ulteriore colpo al rito del cucinare e poi mangiare seduti in sala da pranzo.

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Pigrizia in cucina

Il boom delle consegne a domicilio ha impigrito i consumatori cui è passata la voglia di fare la spesa e poi tirar fuori pentole e piatti, che vanno lavati e riposti. Si mangia accasciati sul divano nelle vaschette e nei cartoni, con le mani o con le posate di plastica, si beve dalla lattina o dalla bottiglia, e poi basta buttare tutto nella spazzatura. Un articolo del magazine americano Vox, si chiedeva «a cosa serve in realtà il tavolo da pranzo?».

E concludeva che ormai, per chi ancora può permettersi lo spazio occupato da un tavolo, serve da scrivania per il remote working e dunque con laptop e stampante e ciabatte per i cavi elettrici, e come piano su cui appoggiare i pacchi recapitati da Amazon e per le cianfrusaglie e le carte che non sappiamo dove archiviare.

Insomma, gli anni Duemila si sono mangiati la sala da pranzo, con le sue vetrinette per le tazzine della nonna in bella vista, laddove oggi fa più figo esibire gli elettrodomestici di ultima generazione, con il tavolo da pranzo con il candelabro o la zuppiera d’argento, laddove fa più status l’isola al centro della cucina, con la famiglia riunita per i pasti, quando ormai si mangia per strada, oppure divanizzati (triclinati), ognuno al suo orario perché pure quello, l’orario dei pasti, ormai è desincronizzato: chi ha una call, chi uno zoom, chi ha il turno, chi lavora con persone che hanno fusi orari diversi, chi segue una sua dieta proteica e non vuol mangiare con altri che trangugiano pastasciutta, ché poi lo traviano.

I metri quadri

La rivista Urbano, ha dedicato il primo numero all’evoluzione urbanistica di Milano, con i suoi piani regolatori e i suoi edifici simbolici, che segnano il passaggio del gusto e degli stili abitativi. Ci sono poi gli interni delle case: «Milano ha una lunga tradizione di costruzione di interni di qualità, nati anche per sopperire alle mancanze di un contesto urbano più funzionale che confortevole».

Tra lussi e stravaganze borghesi e alto borghesi, per tutto il Novecento la tavola della sala da pranzo era sempre stata non solo il luogo dove ogni famiglia si ritrova ma anche quello dove si danno pranzi con la domestica che serve in tavola, con movimenti felpati su scarpe silenziose.

Ma oggi le metrature delle case sono ridotte, gli appartamenti sempre più piccoli per single o famiglie minuscole, i costi al metro quadro proibitivi, gli affitti altissimi.

La cucina a vista è diventata la parola d’ordine, di conseguenza il bancone o l’isola sono la principale proposta di arredatori e architetti, e l’industria del mobile spinge produzione, investimenti pubblicitari, spazi espositivi sulla proposta di cucine di design. La scomparsa delle casalinghe di professione necessita che chi ancora cucina lo faccia “in presenza”, mentre chiacchiera con famigliari e commensali, non costretto a portare avanti e indietro dalla cucina alla sala da pranzo le vettovaglie.

In fin dei conti, la sala da pranzo era un luogo discriminatorio, nasceva dall’andron, il luogo meglio arredato di tutta la casa dove nell’antica Grecia i maschi, etero o fluidi che fossero, si riunivano per i loro simposi, serviti dalle donne di casa e dagli eventuali schiavi mentre discettavano di filosofia o di chissacché.

Come scrisse Mario Praz in La filosofia dell’arredamento, “più ancora della pittura, della scultura, e perfino dell’architettura, il mobilio rivela lo spirito di un’epoca”.

Così, l’ex andron poi trasmutato in sala da pranzo prevedeva schiere di servitù alla Downton Abbey, oppure casalinghe multitalented che cucinavano, servivano in tavola, ripulivano, e riuscivano di tanto in tanto a sedersi e partecipare a frammenti di conversazione, ben vestite e senza schizzi di sugo rimasti sul grembiule tolto al momento giusto.

Formiche operose dedite ad alleviare le preoccupazioni del capofamiglia e a impartire norme di educazione ai figli. Ma la sala da pranzo, con la sua ripartizione gerarchica dei posti, con i “tieni giù i gomiti, stai con la testa alta sopra il piatto, non sbriciolare”, è ormai soppiantata dall’isola o dal bancone, che ovviamente non ha una gerarchia, è pensata per la consumazione veloce, in piedi o seduti sghembi su uno sgabello in postura casuale. Altro che galateo e arte dell’apparecchiatura.

Si litiga

Da tempo, nei dipinti figurativi e nelle scene dei film, si servono cocktail agli amici direttamente in cucina, mentre le rare incursioni in una sala da pranzo sono relegate a snodo narrativo per litigate epocali.

Di fatto, nel mondo della fiction, viene usata perlopiù per il Thanksgiving Day e per il Natale, quando convergono i figli dalle loro vite e improvvisamente, a tavola si scatenano conflitti: uno svela di essere gay al genitore retrivo, l’altra ha commissionato a un utero in affitto una gravidanza con seme di un’amica trans non operata, una tira fuori tutto l’astio di cui si è imbottita per anni, papà alla fine è forse pure pedofilo, l’ha denunciato il vicino di casa.

Del resto, una litigata intorno all’isola della cucina non ha la stessa pregnanza, perché è un luogo di passaggio, dove si arraffa qualcosa di scaldato nel microonde, lo si trangugia e si va. In Italia, al contrario, rimane nei film di Özpetek e di Genovese, come luogo di gaffe e piccoli screzi subito ricuciti dalla cofana di spaghetti.

Secondo i peggioristi, la generazione Z e i millennials stanno tornando allo stile Neanderthal, accucciati intorno a un fuoco (lo schermo) e senza più nemmeno le posate, mangiano con le mani pescando da cartoni e plastiche.

In pratica, come scrive Marco Armiero in L’era degli scarti, stiamo passando dall’Antropocene, con il dominio degli umani sull’intero pianeta, al Wasteocene (waste, scarto), «epoca segnata dalla continua produzione di persone, comunità e luoghi di scarto». E ancora: «L’imposizione di relazioni socio-ecologiche che producono comunità umane e non umane di scarto implica la costruzione di ecologie tossiche fatte di sostanze e narrazioni contaminanti».

Se l’Artusi riunificò l’Italia, insegnando una lingua media e condivisa alle casalinghe che compulsavano il suo ricettario, oggi, accasciati su divani o seduti accanto a uno schermo, verremo riunificati dai balletti di TikTok, o forse, nella migliore delle previsioni, dall’imparare l’inglese con pronuncia decente, come nelle migliaia di tutorial che scorrono sui social.

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