È stato una delle figure più luminose e riconoscibili del cinema americano del secondo Novecento. Attore di rara intensità, dotato di un magnetismo naturale che gli consentiva di passare con disinvoltura dal ribelle al perdente, dal seduttore all’uomo comune, ha incarnato decenni di immaginario hollywoodiano. Ma Paul Newman non è stato solo un grande interprete, ha anche coltivato un percorso registico più defilato e poco esplorato, girando appena cinque film tra il 1968 e il 1987.

Queste opere – spesso interpretate dalla moglie Joanne Woodward – svelano un Newman anti-divo, interessato a storie intime e domestiche, in netto contrasto con la sua immagine pubblica di macho all’interno dello star system, preferendo portare sullo schermo vicende di fragilità quotidiane, dinamiche familiari complesse e ritratti femminili molto profondi.

Emblematica è la genesi del suo esordio registico: nonostante Newman nel 1967 fosse all’apice della fama, dopo Nick Mano Fredda e pronto a girare Butch Cassidy, riuscì a malapena a trovare finanziamenti per un dramma sensibile su una crisi di mezza età femminile, tema considerato allora (e ancora oggi) difficile da vendere a Hollywood.

L’esordio 

Determinato a realizzare quel film in cui credeva, Newman investì di tasca propria e decise di dirigere personalmente Rachel, Rachel (1968, in italiano La prima volta di Jennifer) per mettere in scena una storia delicata interpretata dalla sua attrice preferita, sua moglie Joanne Woodward.

Ne risultò una pellicola intima e umile, lontana anni luce dai kolossal o dai veicoli divistici, che inaugurò un percorso registico coerente e “invisibile”, oggi meritevole di riscoperta. Sia Martin Scorsese che Ethan Hawke sottolineano in The Last Movie Stars (2022) che Rachel, Rachel rappresenta un momento cruciale per il cinema indipendente statunitense, e un esempio precoce di film incentrati su donne complesse e intricate, prima ancora di pellicole celebri come Wanda (1970) o A Woman Under the Influence (1974).

La sua seconda regia, Sfida senza paura (1971), nasce per caso e necessità: inizialmente scritturato solo come protagonista e produttore dell’adattamento dal romanzo di Ken Kesey, Newman si trovò a rilevare la regia dopo l’abbandono del regista originale per divergenze creative. Ne risultò un solido dramma corale su una testarda famiglia di boscaioli dell’Oregon, in cui si dirige anche come attore accanto a Henry Fonda e Lee Remick.

Pur trattando un contesto maschile e ruvido (uno scontro fra una famiglia di taglialegna e il sindacato locale), Newman affronta la storia privilegiando l’autenticità dimessa e l’ensemble dei personaggi. Ma il vero gioiello da riscoprire resta Gli effetti dei raggi gamma sui fiori di Matilda (1972).

Da un acclamato testo teatrale di Paul Zindel, dirige di nuovo Joanne Woodward, affiancata dalla loro figlia Nell Potts, in un dramma familiare al femminile: la storia di una madre vedova instabile e delle sue due figlie adolescenti, alle prese con sogni e delusioni in un modesto sobborgo americano.

La protagonista Beatrice (Woodward) è una donna problematica e vulnerabile, ben lontana dalle eroine patinate, e il focus è sulle dinamiche madre-figlia. La regia di Newman è misurata e lascia spazio alle interpretazioni intense del cast. Sottotono e sobria, la sua mano evita facili sensazionalismi, proprio mentre Woodward offre una performance sopra le righe da mattatrice.

Negli anni Ottanta

Dopo più di un decennio, ne 1984, torna con un con una storia di conflitto generazionale tra un padre vedovo e suo figlio, in cui Newman interpreta Harry, operaio edile burbero e in crisi dopo aver perso il lavoro, mentre il giovane Robby Benson è il figlio aspirante scrittore; nel cast compaiono anche Woodward ed Ellen Barkin in ruoli di contorno.

L’intento di Harry & Son è quello di esplorare il difficile dialogo padre-figlio e la vulnerabilità maschile dietro la durezza di facciata, in linea con l’interesse di Newman per le dinamiche familiari. Tuttavia, il film fu accolto freddamente.

Non troppo diversamente da Lo zoo di vetro (1987), sua ultima regia, rifacimento della pellicola di Irving Rapper del 1950, tratto dal classico di Tennessee Williams (The Glass Menagerie): ulteriore testimonianza della predilezione di Newman per i drammi familiari intimisti. Da un lato, Lo zoo di vetro venne apprezzato per la sua serietà e rispetto verso il materiale d’origine; dall’altro molti osservarono che al film manca il guizzo cinematografico per incendiare davvero le emozioni del pubblico.

Regista anti-divista

In un’industria dominata dall’immagine delle star, Paul Newman ebbe il coraggio di intraprendere un percorso registico controcorrente, quasi invisibile accanto alla sua fama mondiale di attore. I cinque film che ha diretto – spesso ignorati dal grande pubblico – compongono il ritratto di un autore insospettabile: un uomo che usò la propria celebrità per dare voce a storie fragili, familiari, umili, invece di alimentare il proprio mito.

Da La prima volta di Jennifer a Lo zoo di vetro, Newman ha privilegiato i personaggi vulnerabili, i conflitti interiori e il quotidiano, offrendo a Joanne Woodward (e ad altri attori) ruoli complessi e sfide recitative lontane dai riflettori del mainstream. Queste opere, certo diseguali tra loro, riflettono però una coerente visione anti-divistica: Newman il regista ha sempre arretrato nel buio della sala di montaggio, lasciando che fossero le storie e gli attori a brillare al posto suo.

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