Quando, oltre trent’anni orsono, ho iniziato a collezionare, ricordo che non avevo alcun progetto sul futuro della collezione; acquistavo opere con il solo fine di provare continue emozioni e poi, via via che passavano gli anni e la raccolta cresceva, mi ponevo esclusivamente il fine di raccontare una storia vera, una storia di umanità emotiva, poetica, unica e degna di segnare la storia dell’arte.

Collezionavo senza pensare al domani, mi comportavo, rispetto alle mie opere, come se non dovessi mai morire. Oggi non è più cosi.

Ho compiuto 65 anni e ho dovuto prendere coscienza di non essere immortale, di avere dei doveri nei confronti della mia famiglia e della stessa collezione, del cui destino, per quando non ci sarò più, devo occuparmi per tempo. Penso specialmente alla parte storica della collezione, quella che racconta una vicenda tutta italiana che si muove dai primi anni Venti fino ai primi anni Quaranta.

Una raccolta di opere che desidero resti unita e, possibilmente, visibile a tutti nella mia città di adozione, Milano. Così mi sono domandato: «Ma le leggi del nostro paese aiutano o no i collezionisti a valorizzare il patrimonio artistico faticosamente raccolto in una vita intera? Assicurano o no al paese stesso, allo stato italiano, almeno una parte dei capolavori acquisiti con impegno e competenza dai collezionisti?»

1° giugno 1939

Per rispondere adeguatamente a queste domande, è necessario fare un passo indietro e, precisamente, tornare al 1° giugno 1939. In tale data, infatti, è stata emanata la “legge Bottai”, la quale prevedeva due importanti strumenti a tutela del patrimonio artistico nazionale.

Da un lato era stabilita una “soglia temporale”, pari a 50 anni decorrenti dalla morte dell’artista, terminati i quali la pubblica amministrazione poteva vietare l’uscita dal territorio nazionale delle opere d’arte. Parallelamente, vi era il cosiddetto sistema della “notifica”, ossia la possibilità per lo stato di “blindare” l’opera (o una collezione di opere nel suo insieme), in quanto ritenuta d’interesse artistico o storico di particolare rilievo nazionale.

Un’opera o una collezione notificata, quindi, non poteva più lasciare il paese, proprio in ragione dell’interesse, da parte dello stato, a che l’opera o la collezione rimanesse all’interno del patrimonio artistico-culturale della Repubblica.

La “notifica” quindi imponeva al collezionista una serie di obblighi. Ad esempio la richiesta di un’autorizzazione per lo spostamento del bene anche all’interno dei confini italiani. Garantiva inoltre allo stato una serie di diritti rispetto ai beni soggetti a “notifica”, quale, ad esempio, la prelazione in caso di vendita del bene.

Sicuramente la “legge Bottai” era espressione del contesto socio-economico e politico di allora. Il valore dell’ “italianita”, celebrata dal regime fascista in vari settori e nei più svariati contesti, trovava una sua evidente manifestazione anche nell’arte.

Ora, viene da chiedersi: ottant’anni di democrazia come hanno modificato ed eventualmente migliorato questa normativa? L’unica modifica che è stata apportata alla legge è l’innalzamento della soglia temporale sopracitata da 50 a 70 anni; non vi sono altri cambiamenti né altre migliorie.

Tutelare il patrimonio

FABIOFERRARI

Le posizioni sono discrepanti. Da un lato vi è chi, come i giuristi e i galleristi, reputa tali strumenti di tutela fortemente limitanti. Questa disciplina normativa, infatti, così come oggi concepita, non permette la libera circolazione delle opere, vietandone la vendita all’estero o, in molti casi, rendendo necessario doversi confrontare con un sistema burocratico lento, complesso e farraginoso.

Dall’altro, si potrebbe sostenere, a mio giudizio non infondatamente, che una normativa protettiva è pur tuttavia necessaria al fine di tutelare il patrimonio di un paese, come quello italiano, ricco di storia e di opere d’arte che vanno preservate e non certamente disperse.

A favore delle tesi più critiche, bisogna riconoscere che delle forti anomalie nell’attuale normativa non si possono negare. Non vi è un regolamento che stabilisca dei parametri di riferimento per determinare quando sussista il valore storico o artistico legittimante lo stato a procedere alla notifica e non è contemplata una commissione addetta i cui criteri selettivi siano verificabili ex post.

Ma il problema maggiore a mio avviso è un altro: una volta dichiarato l’interesse culturale e “blindato” il bene, lo stato esce di scena. Ci si aspetterebbe, infatti, che, a valle di un provvedimento simile, lo stato si adoperi affinché i beni da tutelare vengano valorizzati, esposti, acquistati dallo stato stesso o dalle istituzioni museali.

Tutto ciò non accade. Anzi, si verifica esattamente l’opposto. I musei non comprano e allo stesso tempo lo stato, nei pochi casi in cui decide di esercitare il proprio diritto di prelazione su un bene notificato, acquista il bene a un prezzo già depresso dagli effetti della notifica, così contribuendo a svalutare i capolavori nazionali.

La naturale conseguenza di ciò è sotto gli occhi di tutti: i collezionisti decidono di esportare le proprie opere poco prima dello scadere della soglia temporale dei settant’anni e, inoltre, si scoraggiano i nuovi collezionisti a raccogliere opere storiche con conseguente impoverimento del patrimonio storico e culturale del nostro paese.

In definitiva, si rischia di allontanare dall’Italia i grandi collezionisti, come, del resto, è avvenuto per Giuseppe Panza di Biumo, il quale ha deciso di vendere all’estero gran parte della collezione, che invece poteva essere di grande rilievo per il patrimonio italiano.

Emblematico è poi il caso della collezione Agrati, donata a banca Intesa Sanpaolo: una raccolta che si appoggia a una banca pur di rimanere viva è il più chiaro esempio della totale inattività nella tutela del nostro patrimonio da parte dello stato.

Una lunga tradizione

Vista questa situazione, si rischia di interrompere la grande tradizione dei collezionisti italiani che nella storia hanno contribuito, se non addirittura costruito quasi per intero, il patrimonio storico e culturale del nostro paese.

Si pensi per esempio alla collezione Jucker, acquisita dal comune di Milano nel 1992; una collezione che documenta, attraverso quaranta capolavori collocabili cronologicamente tra il 1907 e il 1935, il clima culturale delle avanguardie europee, dalle esperienze post divisioniste e futuriste a quelle fauves e cubiste; oppure si pensi alla collezione dell’ingegnere Alberto della Ragione, il quale ha donato la propria raccolta al comune di Firenze nel 1970, permettendo alla città di vantare un museo del Novecento degno di nota.

Sempre per quanto riguarda Milano, come non pensare alla fondazione Boschi Di Stefano, che è nata nel 1998 a superamento di una vertenza giudiziaria insorta fra gli eredi Boschi e il comune di Milano per assicurare l’adempimento, voluto nel testamento dall’ingegnere Boschi, di ricollocare nella casa dove aveva vissuto con la moglie una selezione delle opere della collezione.

Infine, un’altra storia che voglio menzionare è quella di una cara amica e collezionista, Claudia Gian Ferrari. Lei a suo tempo, forse stanca di non ricevere aiuti dalla sua amata Milano, ha deciso di donare al Fai una parte della sua collezione, e ha scelto di donare 58 opere contemporanee italiane e internazionali al museo MaXXI di Roma.

Il museo ha dedicato alla collezionista una stanza che porta il suo nome, ma dentro la stanza non si trovano le opere donate da Claudia. Tutto ciò che resta della donazione di Claudia Gian Ferrari è una stanza vuota, che porta il suo nome. Questa faccenda, agli occhi di un collezionista appassionato come me, è l’esito più grave, biliosa sentinella di un sistema malfunzionante.

Più equità

Visitors wear mandatory face mask as they watch an artwork by Spanish artist Baltasar Lobo at the ART COLOGNE fair for Modern and Contemporary Art in Cologne, Germany, Friday, Nov. 19, 2021. The art fair reopened after several postponements due to the coronavirus pandemic. (AP Photo/Martin Meissner)

Seppur la legge, così com’è ora, è evidente che non aiuti i collezionisti né tantomeno lo stato, credo fortemente che vada mantenuta, ma certamente al più presto modificata. Bisogna progredire, e lavorare in sinergia per cercare di raggiungere un’equità sostanziale tra quelli che sono i vantaggi per i privati, per lo stato, per i musei, per tutelare il patrimonio del nostro paese.

È giunto il momento di ripensare al rapporto tra le istituzioni e i soggetti privati, aprendo le porte a questi ultimi, incentivandoli. Lo stato, i musei devono proporsi nell’acquisto delle opere, ritenute di interesse storico e artistico, al prezzo di mercato.

Si dovrebbe ripensare all’idea di “cura”, parola chiave in questo contesto, dovremmo aver cura del nostro patrimonio e assicurarne la fruibilità, offrendo ai privati delle agevolazioni fiscali o degli indennizzi, così come già in altri paesi accade. In Francia, ad esempio, la qualificazione di un’opera come trésor national impone allo stato di versare un indennizzo al proprietario. Lo stesso accade in Inghilterra.

Sarebbe interessante poter aprire, su questi temi, un dibattito su queste pagine per capire se non sia il caso di apportare delle modifiche alla legge oggi in vigore. Cambiamenti, incentivi, agevolazioni non solo aiuterebbero i collezionisti e gli operatori del sistema dell’arte, ma sarebbero un grande vantaggio anche per lo stato. In fondo, in questa partita, dovremmo tifare tutti per la stessa ragione: valorizzare e tutelare il patrimonio storico italiano.

Probabilmente tutto questo risulterebbe più semplice laddove all’unanimità non si pensasse all’arte soltanto come a una materia speculativa, o a un mercato fine a sé stesso, ma si tornasse a ragionare sulla valorizzazione, sulla tutela, e sull’importanza della pubblica fruizione di un patrimonio artistico che non andrebbe dimenticato ma, in primo luogo, riconosciuto, esposto, sostenuto, acquistato e tutelato.

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