Se il senso di un canone risiede nel disattenderlo, Una settimana di bontà del celebre pittore surrealista Max Ernst adempie perfettamente allo scopo. Si tratta infatti della raccolta di tre stupendi “romanzi per immagini” realizzati tra il 1929 e il 1934 che di romanzo hanno ben poco, considerato che contengono pochissime parole e prestano scarsa attenzione alla sequenza narrativa.

Se non avessimo esempi di storie illustrate già nei vasi della Grecia antica o in opere del medioevo si potrebbe definire quest’opera come una delle prime graphic novel, e in effetti ha avuto molta influenza nel mondo del fumetto. Per realizzarla l’artista tedesco ha creato dei collage con illustrazioni da feuilleton dell’Ottocento e dei primi del Novecento; come ricorda Jessica Backus, André Breton scrisse che rimuovere queste illustrazioni dalle loro normali circostanze le ha innalzate in un regno trascendente «dove le vite precedenti, le vite attuali, le vite future si fondono in una sola vita; la vita completamente depersonalizzata».

Breton attribuì ad Ernst l’onore di aver ampliato «il campo visivo moderno» e in effetti quest’opera ha contribuito a innalzare la tecnica del collage nell’empireo delle belle arti.

Senza Ernst forse non avremmo fumetti come Snake Agent di Stefano Tamburrini, un bellissimo détournement delle strisce del fumetto Secret Agent X-9 di Mel Graff degli anni Quaranta. Per crearlo Tamburrini ha usato la fotocopiatrice come strumento espressivo; muovendo le pagine sul piano della macchina, ha stirato, distorto e sfigurato i personaggi di Graff, creando un’opera nuova a partire dalla striscia di fumetti originale.

Degenerata

Dal regno trascendente di Breton però queste tecniche sono precipitate nell’abisso dell’arte degenerata perché oggi crearle sarebbe illegale o perlomeno molto rischioso, per via di leggi sul diritto d’autore sempre più severe e restrittive.

L’impossibilità di creare capolavori come quelli summenzionati è un punto a favore per chi, nell’acceso e polarizzante dibattito sulle intelligenze artificiali, pensa che queste leggi vadano più nell’interesse delle grandi aziende che della libertà espressiva degli artisti – ricordiamo che la vertiginosa espansione dei diritti a 70 anni dopo la morte dell’autore fu voluta dalla Disney per salvaguardare i propri interessi – e forse un monito per quegli artisti che invocano il diritto d’autore per contrastare le recenti tecnologie text-to-image. Sebbene le preoccupazioni lavorative non possano essere derubricate con leggerezza, l’appello all’originalità sembra fuori luogo, considerato che la stragrande maggioranza dell’arte è derivativa e che anche le rare innovazioni poggiano sul lavoro altrui.

Picasso, ad esempio, non avrebbe potuto sviluppare il cubismo nel medioevo, né probabilmente nel XX secolo senza l’influenza dell’arte africana o le scoperte della fisica moderna. Intendiamoci, non c’è nulla di male nell’essere derivativi, perché ogni opera d’arte è in essenza un lavoro collettivo che si appoggia sulle scoperte e le prassi dell’umanità che ci ha preceduto. Appellarsi all’originalità però si palesa come una battaglia mal posta, che potrebbe avvantaggiare solo le multinazionali che possono permettersi (o già possiedono) i diritti di un gran numero di immagini da usare per “allenare” le intelligenze artificiali.

Timori infondati

La paura è una reazione comprensibile – e spesso motivata – di fronte all’avvento di nuove e dirompenti tecnologie, ma può facilmente sbagliare mira. Quando si parla di intelligenze artificiali, invece di preoccuparci dell’uso militare o di quello a fini pubblicitari o propagandistici rincorriamo rischi inesistenti per la creatività, che invece può giovarsi di questi nuovi strumenti, come dimostra il lavoro di molti artisti e artiste che hanno deciso di sperimentare con questo nuovo media. La paura inoltre è anche controproducente: la battaglia per il diritto d’autore, oltre a fondarsi su basi filosoficamente deboli, rischia di avvantaggiare le grandi corporazioni a discapito dei pochi progetti che lavorano con l’open source.

Non si tratta solo di università, ma anche di aziende come Stability – nessun privato ha i mezzi per sviluppare queste tecnologie – la scelta di trasparenza e apertura dei codici però rende più facile i controlli e ostacola la creazione di monopoli e trust, degli scenari che peraltro si stanno già verificando, come suggerisce l’alleanza tra Adobe e Google, o OpenAi, Microsoft e Shutterstock. Anche il timore lavorativo è mal posto, perché si indirizza contro gli strumenti invece che contro chi li governa: dai un trattore a dieci contadini e saranno felici, usalo per licenziarne cinque e si arrabbieranno.

Allarmismi

Ricordo che agli albori della computer graphics molti professionisti accolsero con sdegno questi nuovi strumenti: «Fa tutto il computer!», «ucciderà l’arte!», allarmi che sono stati disillusi col tempo, così come è stato per la fotografia, odiata da intellettuali come Baudelaire, Ingres e Daumier ma difesa da Delacroix e Nadar. Forse anche in questo caso il tempo confermerà che queste nuove tecnologie sono solo l’ennesimo strumento nella cassetta degli attrezzi dei creativi, ma a differenza di computer graphics e fotografia, la capillare diffusione delle intelligenze artificiali, in atto da anni ma che oggi è in fase esponenziale, ci pone sfide più grandi.

Sono tecnologie pericolose, è vero, ma i rischi giocano in tutt’altro ambito rispetto ad arte e diritto d’autore, il cui esacerbarsi servirà solo a fare un dispetto agli Ernst contemporanei, per favorire i grandi copyright holder.

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