Le prime storie che si ascoltano e che si inventano da bambini sono le fiabe. In qualche modo, fanno da fondamenta all’immaginazione. Più sono salde e ampie queste fondamenta, più ampio e libero sarà il pensiero che ci si costruirà sopra. E se un giorno dovessimo costruire un immaginario nuovo, è proprio dalle fiabe che bisognerebbe partire.

Un immaginario nuovo ci serve. Da qualche secolo in occidente abbiamo cominciato a raccontarci che l’essere umano è al di fuori della Natura, ne è superiore, può ammirarla o usarla, estrarne le risorse fino a esaurirle. Ha raccontato che tutto è binario, uomo da una parte e natura dall’alta, maschio da una parte e femmina dall’altra, e poi razionale e irrazionale, soggetto e oggetto. Non erano buone storie da raccontare e ora bisogna trovarne altre.

La casa editrice Nottetempo da alcuni anni ha una collana che si chiama Terra e i saggi che vi pubblica, dalle eleganti copertine verdi, aiutano proprio a imparare a pensare in modo nuovo. Si parla di Come pensano le foreste (Eduardo Kohn), di Linguaggi animali (Eva Meijer), di Clima, Storia e Capitale (Dipesh Chakrabarti), si dà voce allo sciamano yanomami Davi Kopenawa ascoltandolo raccontare La caduta del cielo.

Ultimamente è apparsa nella collana una fiaba. Si intitola Tundra e Peive di Francesca Matteoni. Francesca è toscana, ha alle spalle un libro dal titolo Io sarò rovo. Scrive fiabe di un mondo silenzioso e scrive su diverse riviste di magia, ecologia, letteratura, folklore e stregoneria: tutti gli ingredienti necessari per raccontare storie archetipiche ed estremamente nuove insieme, che possano lavorare alle fondamenta di un’immaginazione. In Tundra e Peive troviamo tutti gli elementi che già conosciamo, o che il nostro inconscio collettivo in qualche modo conosce, quegli elementi che nei secoli si sono trasferiti dai miti alle fiabe e poi ancora dai fratelli Grimm alla Disney e che forgiano i sogni e le paure che si hanno da bambini, le paure e i sogni per eccellenza. E poi tutti quelli nuovi, che ci servono per interpretare il mondo in cui siamo e soprattutto per immaginarne uno nuovo.

Curare il mondo

C’era una volta – o c’è proprio ora, se guardiamo bene – un tempo in cui la terra si è liberata dall’incuria avida e sciatta degli esseri umani. In quel tempo gli alberi “mutati in odio” si sono trasformati in esseri ostili e avvelenano il mondo. Gli esseri umani rimasti sono come addormentati e a percorrere le strade dentro e fuori la città ci sono solo le Antiche – donne rinate infinite volte, anello di congiunzione fra umani e fate – e i Nomadi, uomini tristi che non sono ancora morti. Silenziose si muovono le “neoarpie”, creature che si sono «nutrite del distacco feroce fra l’umano e il resto del vivente». A cercare di curare il mondo (a proposito di radici culturali, viene in mente il concetto ebraico di riparare il mondo, Tiqqun Olam: rendere giustizia, rimettere a posto per il bene di tutti, appunto curare), ecco a cercare di curare il mondo ci sono una bambina di nome Talia che non ricorda il suo passato, un gatto di nome Peive, capace di assumere le sembianze di altri esseri, e poi il folletto Tundra, lo spirto arboreo Ramosecco che diffida immensamente degli umani, l’Antica Bess che cuce storie nelle coperte di lana. Nel loro viaggio per salvare gli umani addormentati e gli alberi malati incontrano ragazzi con la testa di lepre o uomini con l’ombra di lupo.

Mescolanze di alberi

Nel mondo di Tundra e Peive si è umani e animali, bambini morti e folletti, ognuno contiene molte identità e molti passati. Le Antiche vengono educate all’«arte del guarire» e fra i valori più importanti per tutti ci sono i legami: legami profondi che possono nascere con individui di altre specie, gatti, umani, germogli o folletti che siano. La biologa e filosofa Donna Haraway, che si dedica proprio a immaginare nuovi modi relazionarsi con gli altri esseri viventi, parla di «alleanza fra specie», afferma l’esigenza di generare «parentele» queer, fra individui appunto di specie diverse e spiega che non è come parlare di amicizia: c’entra la «promessa di prendersi cura delle generazioni che verranno, non solo dell’adesso». In questa fiaba, dove il tempo si schiaccia mescola e dilata, ci vuole quest’alleanza fra specie, fra generazioni, fra abitanti passati e futuri per ricucire le ferite inferte da quella propensione a dominare, soggiogare e dividere.

I bambini forse leggono lentamente non solo perché è faticoso mettere una lettera dopo l’altra ma perché devono dare alla loro testa il tempo di immaginare immagini mai immaginate. Questo figurarsi cose mai viste è una magia che nell’adultità si fa rara ma che oggi è necessaria: inventare cose nuove, dare sequenze inedite alle parole, nuovi soggetti e nuove azioni. A volte, immersi in questa storia di gatti e folletti, ci si trova a leggere due volte una frase perché racconta qualcosa che dobbiamo darci il tempo di visualizzare. «Prima di dissolversi, le foglie dalla parete frusciarono in un canto, si protesero a sfiorarla. Sentì che a volte i corpi non resistevano più alla crudeltà dei vivi e diventavano alberi», «E così dicendo batté una volta il suo bastone da passeggio e cadde giù ben dritta, lontana dal cielo e dal tornato, in una buca sotto le sue scarpe». Nella borsa, una donna anziana può avere venti, «venti ostili, tempeste, brezze. Venti polverosi o venti arroventati. Correnti calde, fredde, ghiacciate». Gli alberi, se guariscono dalla loro malattia, aprono «la loro trasparenza agli umani che vi trovano riparo. Alberi-persona e persone-albero». Ci si ferma un attimo perché nella nostra testa si formino soggetti che siamo abituati a pensare come oggetti, per pensare mescolanze fra esseri che di solito non notiamo.

Bontà e buonismo

Tundra e Peive è una fiaba fatta di azioni impreviste e soggetti nuovi, piante che agiscono, si ammalano, diffidano, si ribellano, cantano. E di identità che si sovrappongono. E valori buoni ma non buonisti. Se pensiamo anche ai fratelli Grimm, ad Andersen, a Collodi, a Lewis Carrol, le fiabe sono anche dure, cupe, conturbanti. Illuminano traumi e paure, espongono a brutalità e violenza.

Non mancano i traumi e non manca il dolore, in questa fiaba, e come in tutte sono trattati con secca onestà. Il fatto che per dissodare l’immaginazione e se stessi si debba scendere nelle più fonde e oscure caverne è un dato di fatto: nessun bisogno di drammaticizzare e romantizzare. Carl Gustav Jung o il mitologo Joseph Campbell, ma anche l’antropologo Vladimir Propp sarebbero d’accordo nel dire che non c’è nessuna possibilità di curare il mondo, nessun Tiqqun Olam, senza caverne. Per fare tutto questo, servono nuove fiabe: nuove fondamenta al nostro pensiero.

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