Qualche mese fa ho perso una catenina d’argento. Fatto salvo per alcuni elementi di bigiotteria, tendo a non portare gioielli. Quella catenina la usavo come bracciale, arrotolata al polso in più e più giri, da almeno vent’anni. Apparteneva a una donna della mia famiglia e dubito che abbia un reale valore economico. L’ho persa in una situazione in cui ero di fretta e c’erano di mezzo case, treni e chilometri. Mi sono quasi stupita nel constatare di non essermela presa quanto immaginavo.

Ci avevo messo la più classica delle lapidi sopra e provavo più che altro fastidio, una forma di irritazione per la mia testa svagata, una blanda amarezza mitigata da due fattori principali. Il primo era l’avere altre incombenze a cui pensare, il secondo era l’ormai acquisita consapevolezza che le separazioni dolorose sono quelle dalle persone e non dagli oggetti che le rappresentano quando non ci sono più.

Cimitero abitato da scrittori

Quando ci muoviamo nell’ambito del decorativo, del suppellettile, gli oggetti sono tutti superflui. Eppure è vero anche il contrario, ovvero che gli oggetti sono importanti perché hanno a che fare con l’io e dall’io proprio non riusciamo a staccarli. Così come ha a che fare con l’io e la sua perdita il memoir Niente paura, di Julian Barnes.

Niente paura è senz’altro una raccolta di memorie, ma può essere definito anche un vivace cimitero abitato da molti scrittori e pochi parenti.

È uscito all’inizio di marzo ed è l’ultimo libro di Barnes pubblicato da Einaudi, tuttavia non è la sua ultima opera in ordine cronologico. La peculiarità di Niente paura (titolo rispettoso dell’originale Nothing to be frightened of) è quella di essere una pubblicazione del 2008 che risulta appropriata anche nel 2022.

Sembra concepito da una mente che già allora pensava al futuro immaginando, con una certa precisione, una società in cui la negazione della mortalità ha preso la piega della nevrosi; così forte da generare in molte (troppe) persone il rifiuto dell’esistenza di una pandemia che ha sconvolto il mondo intero, così pervicace da portarci a produrre meme perfino sull’atrocità dell’attacco russo in Ucraina.

Nothing to be frightened of

Julian Barnes è profondamente influenzato dalla cultura e dalla letteratura francesi, ma è un autore anglosassone. Questo, insieme al suo dichiarato agnosticismo, alimenta un tono tutt’altro che emotivo nel momento in cui decide di occuparsi di morte.

Lo avevamo visto, dall’altra parte dell’Atlantico, con l’occhio clinico di Joan Didion. Barnes ha dodici anni meno di Didion, e tre anni separano l’edizione originale di Niente paura da quella dell’antecedente L’anno del pensiero magico.

Nel caso di Barnes ci troviamo di fronte a un’opera ideale per chi voglia guardare al “dopo” con occhi non religiosi, non spirituali. È un punto di vista che certo non esclude i timori, ma li ammansisce attraverso l’analisi di quelli dei grandi che ci hanno preceduto.

Intessute tra gli aneddoti di famiglia - prevalentemente legati ai nonni, ai genitori e al fratello filosofo e ateo militante - si succedono carrellate di riflessioni, citazioni, vicende biografiche, paure o risoluzione delle medesime, ma anche vere e proprie fobie degli intellettuali, scrittori e artisti che più hanno influenzato Barnes.

All’epoca l’autore aveva sessantadue anni ed è come se a un certo punto si fosse rivolto ai suoi beniamini in veste di terapeuti, come se avesse detto: voi che mi avete cresciuto e portato dalla prima giovinezza all’età matura, datemi l’ultima delle risposte ora che vedo così vicino l’orizzonte della terza età.

Nel compiere questa operazione è scevro da sentimentalismi (ma non da sentimenti). Il suo unico credo è la conoscenza, ed è così che - per quanto da punti di partenza e metodi lontani - finiamo col tornare al «leggi, impara, datti da fare, informati. Essere informati significa non perdere il controllo» di Joan Didion.

«Non ho mai scritto un libro, tranne forse il primo, senza considerare a un certo punto la possibilità di morire prima di averlo finito. Fa parte della superstizione, del folklore, della mania del mestiere, dell’aspetto feticistico», scrive Barnes in Niente paura, che è dedicato a Pat Kavanagh, agente letteraria e moglie dell’autore per trent’anni. Kavanagh, è morta a causa di un tumore fulminante nello stesso anno di pubblicazione di Nothing to be fightened of.

Livelli di vita

«Si dicono cose terribili sul mio conto, Captaine Fred. Che arrostisco i gatti e mi nutro della loro pelliccia. Che mangio code di lucertola e cervella di pavone cotte nel burro fatto con latte di scimmia. Che gioco a croquet con teschi umani avvolti in parrucche Louis Quartorze», così Julian Barnes immagina un dialogo tra Sarah Bernhardt e Frederick Burnaby in Livelli di vita (Einaudi 2013).

Bernhardt è attrice di teatro e cinema, autrice, musa tra gli altri di Proust e D’Annunzio, è leggenda del suo tempo. Vanta un vasto serraglio di amanti e animali, tra cui il Capitano Burnaby. In questo scambio lamenta le gelosie e le voci scatenate dal successo, poi chiede al Capitano che le narri dei suoi avventurosi voli in aerostato.

Fred e Sarah sono narcisisti al vertice della catena alimentare dei sentimenti, ma come a volte accade finiscono con l’innamorarsi e, come quasi sempre accade, finiranno col soffrire. Livelli di vita è un libro strano, più che ibrido è bipolare.

I capitoli si aprono accompagnati dal refrain «metti insieme due persone che insieme non sono mai state […] nasce qualcosa di nuovo, e il mondo cambia». È accompagnati da questa espressione formulare che arriviamo fino alla metà esatta dell’opera. Quando la storia tardo ottocentesca di Sarah e Fred finisce, ecco che inizia quella di un lutto avvenuto poco dopo l’alba degli anni Duemila.

Ancora una volta Barnes scrive «metti insieme due persone che insieme non sono mai state», ci illude che stia iniziando una nuova avventura, e invece «a un certo punto, prima o poi, per una ragione o per l’altra, una delle due persone viene meno. E ciò che viene meno è più della somma di ciò che c’era. In termini matematici forse non è possibile; ma in termini sentimentali, lo è».

Ci strappa al dolore ritratto in seppia degli amanti bohémien, e improvvisamente inizia a parlare del suo. «Noi siamo stati insieme trent’anni. Ne avevo trentadue quando ci conoscemmo, sessantadue quando è morta. Il cuore della mia vita; la vita del mio cuore». Solo a questo punto sappiamo (o per meglio dire ci ricordiamo) che Livelli di vita è il romanzo memoir dedicato alla morte della moglie.

Il lutto riprogramma

Barnes appartiene a una generazione che è ancora in grado di ragionare in termini comunitari, così parla apertamente di come il lutto riprogramma le relazioni sociali, allontana alcune persone e ne avvicina altre.

Lui decide di nominare Kavanagh in ogni occasione possibile, e questo semplice gesto opera una selezione tra chi accoglie il dolore e chi si lascia spaventare e si allontana, non vuole parlare, non vuole vedere, non vuole sentire.

«Abbiamo un cattivo rapporto con la morte, evento al tempo stesso unico e banale; non siamo più in grado di considerarlo parte di un disegno più vasto». Pone di fronte a una verità: esistono pillole che leniscono la sintomatologia, ma non esistono farmaci che curino davvero quel tipo di sofferenza.

La sua personale requie non la trova nelle altre e più alte e grandi tragedie dell’umanità, non nella religione, bensì nel pensiero che la morte «è solo l’universo che fa il suo mestiere». Sonda la rabbia e le sue sfumature. Dice non credo che la vedrò mai più, non credo ci rincontreremo con chissà quali fattezze smaterializzate. Sono convinto che chi è morto è morto.

Non si fa ingannare neanche dai trucchi del suo stesso mestiere: «Gli scrittori credono nei disegni prodotti dalle loro parole che sperano possano arrivare a comporsi di idee, storie, verità. È questa la loro salvezza, in assenza come in presenza di dolore».

Poi succede che si appassiona alla lirica, una cosa che prima non aveva mai compreso. Non è religione, ma è elevazione. L’elevazione è una forma possibile di salvezza, non così diversa da quella che l’antropologa e scrittrice Long Litt Woon, rimasta vedova, trova appassionandosi alla raccolta dei funghi. Anche lei sceglie la sua forma di elevazione terrena, la abbraccia, e poi ne fa un libro sulla micologia e il lutto (La via del bosco, Iperborea 2019).

Negazione e iperfamiglia letteraria

Elevazione o meno, Barnes non ha nessuna pietà dei timori propri né di quelli altrui. In Niente paura il concetto di indorare la pillola è lontano anni luce. Analizza al microscopio le paure sue e dei suoi riferimenti. Quella dell’annichilimento e nel non esistere, quella dell’agonia del letto di morte.

Seguendolo incontriamo Nabokov che è un vero e proprio “cronofobo” in preda al panico di fronte a filmini domestici e immagini del passato, Rachmaninov che è un tanatofobo fissato, e poi Flaubert che invece sostiene la contemplazione assidua del buco nero dell’abisso (a furia di fissarlo ci si tranquillizza).

Leggiamo dell’intossicazione da monossido di carbonio causata dalla cappa di un camino che uccide Zola e lascia superstite Alexandrine. Barnes sa bene che i livelli di vita tendono a mescolarsi, dunque non lo stupirebbe che un fatto del 1902 narrato in un libro del 2008 ci avrebbe ricordato È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.

Proprio quel film che abbiamo visto tutti e che è candidato agli Oscar, in cui il monossido di carbonio si porta via i genitori del protagonista e lui, giovanissimo, impazzisce di rabbia e dolore perché viene negata la possibilità di vederne i corpi.

Se Fabietto fosse capitato in mezzo alle pagine di Niente paura forse avrebbe incontrato il fratello filosofo di Barnes, che gli avrebbe detto io sono d’accordo con Platone, e Platone non crede nella necessità di vedere i corpi dei defunti.

Ma vedere è una parte del conoscere, conoscere è provare a capire, e così Barnes finisce con l’affermare: «Se abbiamo smesso di parlare di morte la prima volta che l’abbiamo temuta davvero, e in seguito, ancor di più, quando abbiamo cominciato a vivere più a lungo, è anche scomparsa dai nostri discorsi perché ha smesso di essere lì, con noi, dentro casa. Oggi ci sforziamo di rendere la morte quanto più invisibile e di ridurla a un processo – dalle cure del medico all’ospedale alle pompe funebri al crematorio – in cui professionisti e burocrati ci dicono cosa fare, fino a quando non siamo lasciati a noi stessi, sopravvissuti con un bicchiere in mano, principianti che apprendono a osservare il lutto».

Barnes, dicevamo, non ha nessuna pietà dei timori propri e altrui, ma quando siamo quasi esanimi la sua personale versione della speranza – lucida e razionale - arriva. È quando rispetto alla paura della morte e del morire conclude: «Non c’è ragione per cui la mente, con un po’ di allenamento, non possa espandersi fino a comprendere entrambe».

Strappo

Prima viene la radio e poi un enorme televisore che la sostituisce. Il televisore è associato a un mobile e dentro al mobile sta un kit per la manicure comprensivo di limetta, solvente, scotch riparatore per unghie scheggiate, smalto per la base, smalto per la seconda mano. Oggetti e ricordi si mescolano e ogni oggetto e ogni unione di oggetti crea un’epica – magari banale -, ma unica e irripetibile.

«Le gelatine alla frutta talvolta mi riportano al tempo in cui costruivo modellini d’aeroplano, ma più di frequente a quando mia madre si faceva le unghie», scrive Julian Barnes di alcuni feticci legati alla casa dei genitori, riassumendo il concetto in una frase.

Gli oggetti, dunque, e mentre leggo dei vecchi oggetti della famiglia Barnes penso a quanti se ne trovano ogni volta che ci si imbatte in narrazioni di fiction e non fiction legate alla morte, e mentre penso a tutta questa mole di paccottiglia appartenuta a persone lontanissime un pensiero diverso si crea e ha la forma di uno strappo.

Nello specifico, ha la forma dello strappo che si apre in fondo alla fodera di una borsa che uso molto spesso. L’unico luogo che non ho setacciato negli ultimi mesi è quello spazio inutile che divide la stoffa dal cuoio. È da tempo che mi ripeto che dovrei rammendarla, non l’ho mai fatto. Dunque mi alzo e vado a prendere la borsa in questione, mi faccio strada nello strappo e ne estraggo la catenina d’argento perduta. Era sempre stata là, l’avevo sempre portata con me.

In preda alla vertigine di chi trova la risposta a tutto nei piccoli segni del caso - e subito vuole correre a scriverne -, penso che Julian Barnes avrebbe più di una cosa da ridire. Obietterebbe che questo istintivo cercare un senso in una trama della vita e dunque della morte è una proiezione, un riflesso del mestiere di scrittrice e, in ultima analisi, un meccanismo di difesa.

Penso che forse ha ragione, ma anche che ho tutta l’intenzione di tenermi stretta la mia bigiotteria mistica, senza mai rinunciare a leggere le pagine di chi la pensa in modo diametralmente opposto.

Quello del lutto, della morte e del morire è un territorio sconfinato in cui non ci sono verità. C’è un coro di voci consonanti e dissonanti, con idee, visioni, pareri, desideri diversi, con religiosità canoniche e autogestite, con assenza di ogni tipo di tensione verso il divino. Il coro dell’umanità che non cessa di scrivere e interrogarsi senza mai trovare risposte.

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