Autunno ‘78, giorno feriale, ora di pranzo. Pier Vittorio Tondelli, barba lunga e chioma incolta, sbarca sotto la copertura della stazione centrale di Milano; ha con sé quella che ritiene la versione definitiva del suo «romanzo di quattrocento pagine».

Percorsa la banchina sino alla testa del binario, scende la scalinata che conduce al portico delle carrozze e s’incammina nella scighera verso il cuore della città.

Segue in leggera discesa il portico altissimo che digrada verso piazza della Repubblica, bordeggia i magri giardini all’ombra dei grattacieli e, guadato sulla zebra pedonale l’asse della circonvallazione, si lascia alle spalle i volumi titanici delle torri moderne per entrare in centro.

A ogni svolta consulta con discrezione la cartina della città che si è portato dietro, sulla quale ha tracciato a matita il percorso più breve per via Andegari.

Un quarto d’ora ed è alla sede della Feltrinelli. Spera di intercettare qualcuno della redazione per affidargli il suo romanzo, ma una centralinista blocca il barbuto spilungone nell’atrio: dove pensa di andare?

«Ho scritto questo libro» balbetta il Nostro, realizzando all’istante quanto risulti ingenuo il suo sogno agli occhi di quella donna addestrata a tenere gli aspiranti autori fuori dagli uffici.

«Lo lasci qui» gli dice, invitandolo a posare il dattiloscritto in cima a una pila di altri scartafacci. «Andrà in lettura e, se sarà giudicato interessante, la chiameranno».

La paura

PVT ripiega verso la stazione Centrale combattuto fra la speranza, che lo invita a una paziente attesa, e l’ansia sottile che gli viene dall’essersi separato fisicamente da quei fogli sui quali ha lavorato due anni pieni. Conosce abbastanza bene la storia della letteratura per sapere che potrebbero andare persi; a differenza del povero Dino Campana, che si vide smarrire il manoscritto in copia unica dei Canti orfici e ammatti nel rimetterli insieme a memoria, perlomeno lui ha consegnato una copia.

Non è quella, in realtà, la paura più profonda che avverte. Il fatto e che in quel romanzo ha messo tutto se stesso, ciò che odia e ciò che sente più caro; e il frutto di centinaia di libri letti, di tutti i film che ha visto e commentato nei cineforum, di tutte le canzoni di Battisti e Cohen che ha ascoltato.

È la quintessenza dei suoi desideri segreti e il messaggio in bottiglia al quale affida il suo grido d’aiuto, la proclamazione dei suoi ideali per una società più giusta e la sua personale dichiarazione di poetica.

Adesso che l’ha lasciato in via Andegari, quel testo in cui si cela la sua stessa anima potrebbe finire in mano a chiunque.

In Centrale, mentre fa la coda alla biglietteria, gli sale la paranoia che la centralinista lo stia leggendo, ridacchiando di lui come d’un babbeo. O forse, a quel punto, è già finito nel cestino, sommerso dalla posta indesiderata e lordato dai mozziconi di sigaretta.

Rincasa svuotato, indeciso se brindare alla buona sorte o sentirsi in colpa come chi ha abbandonato un figlio alla ruota.

Passano tre giorni quando lo cercano al telefono da Milano.

È Aldo Tagliaferri, lo storico editor dei “Franchi Narratori”, e vuole parlare con lui di persona. (…)

La sua storia che diventa un libro, un libro vero col suo nome in copertina. Non servirebbe altro per toccare il cielo con un dito. D’altronde, se il romanzo non avesse convinto l’editor, perché tanta fretta di vedersi?

L’appuntamento 

Torna a specchiarsi nello sguardo della centralinista, ma questa volta conosce le parole magiche per procedere oltre l’atrio: «Ho un appuntamento con Aldo Tagliaferri» spiega compunto, e per lui si aprono le porte della redazione Feltrinelli.

Aldo Tagliaferri è un uomo di cultura sterminata dagli occhi azzurri e la pronuncia blesa. PVT resta incantato di fronte al suo apprendistato universitario fra Yale e la California, e ancor più lo meraviglia che quel signore s’interessi sinceramente a lui, ai libri che ama e alla sua formazione.

L’editor conosce bene parecchi fra i docenti del DAMS, ma sembra avere verso i loro trascorsi comuni uno sguardo distaccato. La neoavanguardia del Gruppo 63, a suo modo di vedere, ha fatto la fine di tutte le avanguardie storiche, a cominciare dal surrealismo: scismi interni e frammentazione d’intenti da una parte, anatemi fra papi e antipapi dall’altra, istituzionalizzazione del nuovo attraverso il mondo dell’accademia e dei giornali.

Il Nostro ascolta ammirato quell’uomo che gli pare da subito la rappresentazione vivente della consapevolezza proiettata nel settore della produzione culturale; sotto sotto, pero, non sta nella pelle all’idea di conoscere l’opinione dell’editor circa il suo romanzo.

«Che dice?»,  accenna al dattiloscritto sulla scrivania. «Si può pensare, lei dice, di lavorarci su in vista di una prossima…». Si sente mancare il fiato, e mentre le guance s’imporporano esala: «Pubblicazione?».

Tagliaferri torna a meravigliarlo. Racconta di come la Feltrinelli, vista da fuori come un corpo unico, viva su equilibri sottili, talora esacerbati dalla militanza in diverse obbedienze della sinistra, fra i direttori delle varie collane.

Quanto a lui, gli è bastata una lettura del dattiloscritto per realizzare due cose. La prima e che il ragazzo e bravo davvero, e la qualità letteraria della sua prosa non merita di essere confinata nel recinto dei selvaggi.

«Non poteva essere collocato tra i “Franchi Narratori”» ricorderà l’editor a trentacinque anni da quel primo incontro. «In qualche modo quel ragazzo era un narratore. Semplicemente andava sbozzato».

La seconda intuizione di Tagliaferri è che PVT appartiene alla stirpe degli autori precoci, che a sedici anni scrivono un romanzetto autobiografico, per i diciotto eleggono a protagonista un pensoso uomo maturo che si interroga sulla vita, e dai venti in avanti si ripropongono di creare direttamente un’opera-mondo. C’è troppo, in quel romanzo, e quel troppo non concede il giusto respiro alla narrazione.

Si parlerà di «un testo alquanto stratificato, corposo», appesantito

da «inserti di cultura un po’ libresca», e lo stesso Tondelli ammetterà che avanzava pretese strutturaliste, «tantissime citazioni, persino un poemetto epistolare come intervallo, belle cose per me ma a loro non piaceva tanto».

«Perché non provi a scrivere qualcosa di più breve?» propone Tagliaferri. (…)

«Nelle descrizioni sei molto bravo, e in queste pagine si nascondono scene che chiedono solo di essere rielaborate. Semplicemente, dovresti liberarle dalle zavorre e lasciarle risplendere. Credo ne potrebbe venire fuori un testo molto buono».

Parlare di fatti 

PVT esita. Da una parte vorrebbe alzarsi sdegnato, portare di corsa il suo romanzo a un altro editore; dall’altra, la stima che Tagliaferri sembra nutrire per le sue qualità lo invita all’ascolto.

«Fare lo scrittore significa parlare di fatti», sillaba l’uomo che gli sta di fronte. «Le buone storie parlano da sé, non hanno bisogno di teorizzazioni né di ideologismi, ma di personaggi e accadimenti, di un ritmo e di una voce».

PVT lo vede sfiorare col palmo il suo dattiloscritto. «Tutto quello che hai fatto non è sprecato. Semplicemente, devi farlo evolvere assecondando la natura più intima del testo. E il tuo, a mio modo di vedere, domanda, anzi reclama, di levarsi di dosso le teorie del romanzo, la semiotica e la psicanalisi».

«A quanto pare l’università non mi ha fatto tanto bene» balbetta smarrito il Nostro.

«Da un certo punto di vista sarà stata utilissima, invece≫ concede Tagliaferri. «Ma ai cantastorie non serviva la laurea per tenere lì il loro pubblico. Prova a fare come loro, racconta di questo tempo in cui vivi e delle situazioni che conosci, e fallo con la lingua di chi sta ad ascoltare. È da quella che i tuoi simili ti riconosceranno».


Il testo è un estratto da SuperTondelli, HarperCollins, in libreria il 26 settembre. A Pordenonelegge Enrico Brizzi arriva in anteprima con il libro, in dialogo con Mario Andreose, presenta Alessandro Mezzena Lona, sabato 20 settembre, ore 12 Auditorium Istituto Vendramini.

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