Come tutti i riti che si rispettano, non c’è “prima” della Scala senza una serie infinita di polemiche e note di colore. È un rito milanese, e insieme nazionale, che si consuma ogni 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, dottore della Chiesa e Santo Protettore di Milano. Le polemiche, si diceva, sono iniziate già da qualche giorno, legate all’assenza sul Palco Reale del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (alla terza assenza consecutiva alla Prima), e della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

A supplire alla loro assenza sono stati il sindaco di Milano, Beppe Sala, il presidente della Regione Lombardia, Fontana, il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, e Liliana Segre, accolta da un lungo applauso. In sala erano presenti numerosi politici e personaggi dello spettacolo, tra cui Achille Lauro e Mahmood.

Nel “menù” del 7 dicembre (non quello che preparerà lo chef stellato Davide Oldani per la cena di gala) non possono mancare le proteste di piazza, che grazie all’attenzione mediatica assumono un’eco significativa. Il pomeriggio, in piazza alla Scala, si è aperto con un presidio della Slc Cgil contro la bozza del nuovo Codice dello spettacolo e con una serie di interventi di esponenti di gruppi per la Palestina. Tutto si è svolto pacificamente, mentre su Rai 1 la coppia Vespa-Carlucci introduceva il pubblico da casa con un foyer stipato di gente. In questo grande “levare” che precede l’apertura del sipario non possono mancare i numeri, che dicono chiaramente la portata dell’evento.

L’incasso della sola serata inaugurale sfiora i 2 milioni e 700 mila euro, un record per una Prima, le cui repliche - ormai tutte esaurite - porteranno circa 300 mila euro a serata. Risultati importanti per una produzione molto costosa, che non ha badato a spese. Per la prima volta sugli schermi del teatro si avvisa il pubblico della presenza di scene che potrebbero turbare la sensibilità (nemmeno l’ombra) e Riccardo Chailly inaugura per l’ultima volta, dopo dodici anni, la Prima.

Tutti in piedi per l’Inno di Mameli, e le vicende di Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Šostakovič vengono “sbattute” in faccia senza mezzi termini. Il regista russo Vasily Barkhatov, al debutto alla Scala, ambienta la storia nella Russia sovietica degli anni Cinquanta. La narrazione procede in un continuo alternarsi tra presente e passato, in un contesto popolato da uomini ubriaconi e grossolani, spesso rappresentati in modo quasi parossistico.

Il marito di Katerina, Zinovij (il tenore Yevgeny Akimov), è delineato come un uomo privo di attributi, soggiogato dal padre Boris (il basso Alexander Roslavets), che rimprovera il figlio per non saper dominare la moglie. Il cast vocale funziona, pur senza offrire prestazioni memorabili; anzi, Katerina (il soprano Sara Jakubiak) scivola spesso in una monotonia vocale ed espressiva che non rende giustizia al personaggio intricatissimo che incarna. I veri protagonisti della serata sono Chailly e l’orchestra. La partitura richiede un virtuosismo strumentale rarissimo nel repertorio operistico. Il direttore milanese è dentro la musica: coerente nelle scelte, nei colori, nello stacco dei tempi. Sa mantenere un certo distacco proprio nei punti in cui la scrittura incalza, scalcia, rischia di far perdere la bussola.

Conosce perfettamente ciò che Šostakovič vuole dire e utilizza tutti i mezzi tecnici ed espressivi per restituirlo al meglio. Ancora una volta, ciò che non convince è la regia di Barkhatov. In Italia lo abbiamo visto al San Carlo di Napoli con Turandot e al Caracalla Festival di Roma con il Don Giovanni di Mozart: in entrambe le produzioni alcune scelte risultavano incomprensibili, con derive cervellotiche e ultra-simboliche.

In questa Prima scaligera tutto sembrava più coerente: pochi spostamenti temporali e narrativi, movimenti scenici negli interludi ancora accettabili. Inguardabile e senza alcun senso la scelta finale di far comparire le due donne avvolte dal fuoco. Una soluzione incomprensibile di fronte a un libretto che racconta la fine terribile di Katerina e Sonetka annegate nel Volga, non bruciate vive. Una scelta che azzera il significato del fiume, simbolo - nella cultura russa - di eternità, resilienza e grandezza. Alla fine tutti contenti, nessuna contestazione alla regia, grandi applausi, fiori che riempiono il palco e complimenti sperticati in diretta nazionale.

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