Non sono mai andato a pesca in vita mia, in quanto la ritengo la più noiosa attività al mondo, fatta eccezione per le gare automobilistiche. Questa precisazione, in apparenza gratuita, si rivelerà ben presto indispensabile per comprendere quanto segue. Fu infatti con immenso stupore che, anni or sono, mi imbattei in una poesia (ma dovrei dire meglio, una «contro-poesia») centrata appunto sull’attività ittica.

All’epoca, studiavo i celebri versi che Paul Valéry dedicò a La giovane Parca. Il titolo verteva sul contrasto, anzi sul vero e proprio ossimoro, tra l’aggettivo e il nome. «Parca», in effetti, indica una delle tre decrepite divinità che, nella mitologia classica, presiedevano al destino dell’uomo, dalla sua nascita fino alla morte (Clòto, Làchesi e Àtropo, quest’ultima chiamata a recidere il filo della vita). Rivolgendoci al genere maschile e al linguaggio biblico, le cose risulteranno forse più chiare dicendo qualcosa come Il giovane Matusalemme, un personaggio divenuto l’emblema stesso della vecchiaia. Ebbene, in una dimensione tanto fitta di echi e citazioni, immaginate quale fu la mia sorpresa nello scoprire che uno tra i maggiori pensatori contemporanei, Jean-Luc Nancy, aveva composto il poemetto La giovane carpa

Avevo letto bene? Si trattava di un semplice refuso? Ero finito dentro un cruciverba? Cosa aveva a che fare, la mia indagine critica, con le «combinazioni enigmistiche basate su iniziali»? Trovai la soluzione poco dopo, leggendo un’ampia intervista con Emmanuel Laugier apparsa sulla rivista «L’animal», in cui il filosofo francese ricostruiva i suoi rapporti con la scrittura poetica. La sconcertante riscrittura del testo di Valéry, precisava, poteva definirsi una parodia.

D’altronde, sostituire alla figura mitologica della Parca l’immagine di un pesce qualsiasi, la dice lunga sul tipo di abbassamento ironico praticato. Per quanto impegnativo, il poemetto sulla Giovane carpa non era che uno scherzo, un miraggio alfabetico.

Tutto risolto, dunque? Macché. La pesca era andata magnificamente; peccato, però, che all’amo fossi stato preso io. Quella, cioè, non era la conclusione del mistero, ma soltanto il suo inizio. Infatti, aggiungeva Nancy, «con la poesia non possiamo mai farla finita, sia che la odiamo (Bataille, Artaud), sia che la veneriamo».

Ecco, ci siamo: con il verbo «odiare», la parola chiave era stata pronunciata. Da quel momento in poi, terminati gli studi su Valery, la mia nuova pista di ricerca sarebbe stata un’altra: quella, appunto, dell’odio nella sua specifica declinazione estetica.

Pagare l’opera

Nel 1950 Céline era stato condannato in contumacia a un anno di prigione, ammenda e indegnità nazionale per atti nocivi alla difesa della Francia. Un anno dopo, arrivò l’amnistia. Eppure, strano a dirsi, basta andare online per trovare decine di interviste allo scrittore. Come mai? Perché quest’uomo in lotta contro il mondo accettò di esporsi con tanta disinvoltura, foga, precipitazione? La risposta a questa domanda sta nella continua contraddizione dello scrittore fra oltranzismo stilistico e ammiccamento al mercato.

Ma veniamo al cuore dell’affaire Céline: lo stile. Siamo arrivati al punto: ai suoi occhi, la letteratura, lungi dall’essere un passatempo o un’attività decorativa, richiede uno sforzo abominevole. Ai suoi occhi, lo scrittore dev’essere visto innanzitutto come un formidabile lavoratore. Per tutti gli altri, per quegli scrittori senza necessità e senza alcuna urgenza, per tutti quelli che compongono in fretta, resta solo lo scherno. L’arte, cioè, esige in cambio la vita dell’autore. Bisogna pagare, pagare l’opera con la propria esistenza.

Riferendosi a uno dei tanti romanzi commerciali, lo sentiamo dichiarare: «Preferirei morire, piuttosto che scrivere un libro del genere». Ecco, questo è Céline in tutta la sua intransigenza, come si vede quando deve difendere i suoi testi da tagli e censure: «Non aggiunga una sola sillaba senza avvertirmi!», oppure: «Rifiuto nella maniera più assoluta di sopprimere una parola, una virgola», e ancora: «Con o senza il mio accordo, non dovete sopprimere nemmeno una lettera». L’appassionata, esemplare difesa della libertà espressiva sfocerà in quegli irresistibili Colloqui con il professor Y che illuminano una poetica basata sulla scelta dell’argot, di certe forsennate slogature sintattiche o del portentoso uso dei puntini di sospensione.

È in questa autentica nevrosi linguistica, in questa sontuosa frenesia (affidata alla prediletta immagine della «piccola musica»), che culmina la maestria di Céline. Il risultato di tanti sforzi sara un francese unico: alterato, travisato, sfigurato, frutto di crudelta meticolosa, di feroce sapienza, di estenuato perfezionismo. La torturante bellezza dei suoi capolavori sta infatti nella forza con la quale lo stile si dimostra in grado di cantare l’orrore: «Tutto il mio lavoro èconsistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile e tesa, precisa, sferzante e cattiva iniettandole un linguaggio parlato, il suo ritmo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto, di resa emotiva». Oppure: «Io seguo con le parole l’emozione, non le lascio il tempo di rivestirsi in frase...l’afferro nuda e cruda, o meglio, nella sua poeticità. Perché il fondo dell’uomo malgrado tutto e poesia – il ragionamento si apprende, così come si impara a parlare – il bebè canta – il cavallo galoppa – il trotto èdi scuola».

Ancora, in una lettera a Milton Hindus: «Non creo nulla, in verità – è come se ripulissi (...) una statua seppellita nell’argilla – Esiste già tutto. (...) Occorre soltanto spazzare (...) portare alla luce del giorno – avere la Forza – èuna questione di forza – forzare il sogno nella realtà– una questione di pulizia (...) È un lavoro da operaio – operaio nelle onde».

Che meraviglia, l’immagine dello scrittore alle prese con l’emozione, lo stile, la musica, dunque paragonato a un «operaio nelle onde...» E infine, da una lettera a Marie Canavaggia: «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, spiritualmente non significa niente, meno che zero... Purtroppo ci toccano le conseguenze materiali, ma moralmente... Cani, nient’altro che cani. Tutto è permesso, insomma, per evitare i loro morsi e ingannarli e aizzarli in modo che si sbranino fra loro. Meglio dimenticare tutto, mascherare in musica l’orrore del vivere».

Bene, fermiamoci qui, su questa necessità di musica. La si apprezza per intero ascoltando le sue illuminanti parole sulla violenza dispiegata nel teatro elisabettiano: «L’orrore è niente, senza il sogno e la musica... Macbeth è puro Grand-Guignol senza musica, senza sogno... Prendiamo Shakespeare: 3/4 di flauto, 1/4 di sangue» (À l’agité du bocal). Messo da parte il sangue, non resta che concentrarsi sul flauto.(…)

Voyeur e spia

Almeno sul romanzo francese del Novecento, non possono esserci dubbi. Come scrisse una volta per tutte l’antropologo, etnologo e teorico dello strutturalismo Claude Levi-Strauss, «Proust e Celine: ecco la mia inesauribile felicitàdi lettore». Prova ne sia che, malgrado l’amore di Levi-Strauss per la Recherche du temps perdu, spicca una sua recensione di Voyage au bout de la nuit uscita sulla rivista L’Étudiant socialiste del 1933. A ogni modo, un primo accostamento tra i due autori venne avanzato già nel 1932 da Léon Daudet, il quale cercò invano di far assegnare a Céline quel Premio Goncourt che era invece riuscito a far ottenere a Proust. L’autore del Voyage ne fu cosciente, come dichiarò a Madeleine Chapsal: «Daudet aveva sentito qualcosa, come una piccola musica, come aveva sentito Proust» (Robert).

Certo, i due romanzieri possono a buon diritto essere considerati come i fondatori della moderna «autofiction», genere a metà strada fra l’autobiografia e la fiction (in quanto racconto inventato, di finzione o fantasia).

Infatti, l’eroe di Proust somiglia al proprio autore almeno quanto quello di Céline ricorda Céline stesso. Secondo Robert, questa tecnica narrativa, messa a punto nella Recherche e ripresa in Morte a credito, «impone all’eroe-narratore un ruolo di voyeur o di spia». Nel 1958 Céline lo confessa apertamente a Jacques Chancel: «Essere un voyeur (...) essere un buon osservatore clinico – quel che era Proust». A riprova di ciò, basti ricordare le varie scene di voyeurismo, sempre a sfondo sessuale, presenti in entrambe le opere.

Non per nulla, Marie Christine Bellosta si riferirà ad ambedue i romanzi parlando di quei corpi di donna che, spiati in chiesa (rispettivamente la duchessa di Guermantes e Nora), appariranno come frammentati «dallo sguardo del desiderio».

Premesso questo, pero, si stenta a immaginare opere piú antitetiche, composte da autori più inconciliabili. Così, nel colloquio radiofonico con Louis-Albert Zbinden del 1957, Céline sostiene: «Proust si occupava delle persone di mondo, io mi sono occupato delle persone che mi capitavano sotto gli occhi e sotto la mia osservazione». Notando come Henri Godard abbia definito Céline l’«anti Proust» per antonomasia, Alessandro Piperno ha osservato: «Se Proust complica la sintassi, estenuandola fin quasi alla saturazione, Céline la spacca in mille pezzi; se Proust lavora sulle nuance, le pieghe dell’interiorita, l’inattendibilitàdei sensi, Céline elegge il grido, il sarcasmo, la bava alla bocca a strumenti di conoscenza; se il Narratore della Recherche èun rampollo della buona borghesia parigina nevrotico, classista e stanziale, l’eroe del Voyage e un miserabile, un globetrotter in balia della Storia; se il milieu proustiano è composto da milionari, esteti sfaccendati e cocotte dalla sessualità controversa, l’umanità di Céline è indigente e delirante». Ma già Bellosta aveva enumerato le differenze tra i due autori, cominciando proprio da quella relativa alla contrapposizione tra riflessione ed emozione, per poi continuare con le coppie di complesso e semplice, ordine e frammentazione, tradizione e innovazione, borghese e popolare, masochista e aggressivo, statico e dinamico.

Aggiungo due chiose: mentre per Jerzy Zywczak la frase tortuosa di Proust, che collega gli elementi piúdistanti, si situa agli antipodi di quella di Céline, che cerca invece associazioni immediate, Pierluigi Pellini èancora piú radicale nel contrapporre i due romanzieri. A suo avviso, tutta la Recherche rappresenterebbe la ricerca di una vita vera, sottratta al dispotismo del tempo: «Nel Voyage, al contrario, l’immaginazione non svela una dimensione superiore, o ulteriore, ma consente semplicemente – con rigoroso materialismo – di riconoscere un destino di morte. E mai, per Céline, l’arte è salvifica: la letteratura consente di conoscere – e ipso fatto combattere – il male; per questo deve dire tutto. Ma non offre alternative all’inferno della condizione umana».

Per capire quanto audace fosse stato Levi-Strauss nell’accomunare i due scrittori, conviene allora affidarsi a Stephane Massonet, secondo cui la formulazione di questa inedita coppia si rivelerebbe di estrema intelligenza critica. Un accostamento tanto inatteso permette infatti di disinnescare gli scarti politico-sociologici che separano i due romanzieri.

Verrebbe cioè consigliato al lettore di farsi egli stesso antropologo, per passare da un autore all’altro proprio come si transita da una cultura a un’altra, «scivolando in un batter d’occhio da una concezione del mondo o da una cosmologia, verso un’altra» (da Reecrire le livre de la guerre, H. Picherit, Le livre des ecorches). Insomma, Proust e Céline come due distinti universi culturali(…).

Disperato e freddo

Abbiamo parlato di duello, ma resta comunque da chiarire una questione essenziale relativa all’inevitabile squilibrio della nostra trattazione, squilibrio dovuto a evidenti questioni cronologiche. Ovviamente, l’autore della Ricerca del tempo perduto nulla poté sapere dell’astio riservatogli da Céline, dato che il suo accanito denigratore esordí giusto dieci anni dopo la sua morte. Il che pone un problema non da poco. A prima vista, infatti, una simile asimmetria potrebbe suggerire di invalidare lo scontro, poiché non si trattò di un vero duello, quanto piuttosto di un’aggressione postuma. Che meraviglia sarebbe immaginare la replica di Proust a tanta virulenza!

Ebbene, penso che l’assenza di tale documentazione non debba preoccuparci più di tanto. Ritengo cioè che proprio una simile mancanza di reciprocità dia al combattimento un significato più acceso, rendendolo violento fino all’esasperazione.

Altrimenti detto, credo che l’odio provato da Céline per Proust sia tale da valere almeno il doppio.

È un odio che, da solo, basta per tutti e due, un odio attraverso il quale comprendiamo l’opera del primo come quella del secondo. È un odio viscerale e insieme epistemico, non tanto emotivo, quanto conoscitivo, capace di guidarci verso la verità di due poetiche intimamente, inesorabilmente antagoniste.

Del resto, come avrebbe potuto essere diversamente: figlio di piccoli commercianti, cattolico oltre che antisemita, solitario e omofobo il primo; altoborghese, ebreo, mondano e omosessuale il secondo. Dunque, i dioscuri del romanzo francese novecentesco, i Castore e Polluce additati da Levi-Strauss, furono insieme ai vertici e agli antipodi della scrittura, in una vicinanza che ricorda piuttosto quella di Caino e Abele.

Eppure, almeno sotto certi aspetti, è vero anche l’opposto, ossia che molti tratti uniscono i due autori. Lo ha rilevato Pascal Alain Ifri, sostenendo ad esempio che la visione proustiana della società in piena decomposizione non ha nulla da invidiare alla visione céliniana.

Nella loro inclinazione alla perversità, i protagonisti del primo sembrano anzi spingersi anche oltre gli eroi del secondo, al punto che, a detta dello studioso, il creatore distaccato e olimpico della Recherche appare spesso paradossalmente più disperato e freddo del narratore celiniano.

Il testo è tratto dal libro Proust e Céline. La mente e l’odio, Einaudi Stile libero, 2022.

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