Il grande pubblico, si sa, non ama l’arte contemporanea. È una constatazione banale che, di fatto, si riferisce a due atteggiamenti opposti. Transitando per caso in un luogo dove si trovano esposte opere pittoriche o scultoree contemporanee, il visitatore medio si ferma sì davanti ai quadri o alle sculture presentate, ma il più delle volte lo fa solo per riderci su. Il suo atteggiamento oscillerà tra il divertimento ironico e il sarcasmo puro e semplice; in ogni caso, privilegerà il registro della derisione; la stessa mancanza di significato delle opere in mostra gli sembrerà una rassicurante garanzia d’innocuità; probabile che abbia perso tempo, ma lo avrà perso in un modo tutto sommato non così spiacevole.

Posto di fronte a un esemplare di architettura contemporanea, invece, il medesimo visitatore avrà molto meno voglia di ridere. In condizioni favorevoli (la sera tardi, o con lo sfondo sonoro di sirene della polizia), si noterà in lui un fenomeno, nettamente caratterizzato, di angoscia, con accelerazione dell’insieme delle secrezioni organiche. In tutti i casi, l’insieme funzionale costituito dagli organi della vista e locomotori manifesterà un importante incremento di valori.

Accade lo stesso quando un autobus di turisti, sviato da un intreccio di segnalazioni arbitrarie, depone il suo carico umano nel quartiere delle banche di Segovia o nel centro finanziario di Barcellona. Calati nel loro universo abituale fatto di acciaio, vetro e frecce, i visitatori ritrovano immediatamente il passo rapido e lo sguardo funzionale e orientato corrispondenti all’ambiente proposto. Procedendo tra guide e segnalazioni scritte, non tardano a raggiungere il quartiere della cattedrale, il cuore storico della città. Subito la loro camminata rallenta; il movimento degli occhi assume un andamento aleatorio, quasi erratico. Sul loro viso (fenomeno di apertura della bocca, tipico negli americani) si legge stupore e sbalordimento. Con tutta evidenza, si sentono in presenza di oggetti visivi inusuali, complessi, difficili da decifrare. Tuttavia, da lì a un momento, compaiono sui muri dei messaggi esplicativi: propiziati dall’ufficio del turismo, trovano posto riferimenti storico-culturali; al che, i nostri visitatori pensano sia venuto il momento di porre mano alle videocamere per memorizzarvi i propri spostamenti all’interno di un percorso culturale orientato.

Un’architettura trasparente

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L’architettura contemporanea è un’architettura modesta; manifesta l’autonoma presenza del suo essere architettura solo mediante ammiccamenti – in genere micromessaggi pubblicitari sulle sue stesse tecniche di fabbricazione (per esempio, è fenomeno comune garantire una buona visibilità ai macchinari degli ascensori, come al nome della ditta responsabile della loro ideazione).

L’architettura contemporanea è un’architettura funzionale; del resto, i problemi estetici che la riguardano hanno da tempo trovato piena soluzione grazie alla formula: «Ciò che è funzionale è necessariamente bello». Partito preso sorprendente, in quanto lo spettacolo della natura contraddice di continuo quel postulato, esortando se mai a vedere la bellezza come una sorta di rivalsa sulla ragione.

Se le forme della natura risultano gradevoli all’occhio è, sovente, perché non servono a nulla, non rispondono ad alcun criterio di efficacia concreta. Ed esse si riproducono con esuberanza, ricchezza, mosse evidentemente da una forza interna spiegabile con il puro desiderio di essere, il semplice desiderio di riprodurre: forza, a dire il vero, non sempre comprensibile (basti pensare all’inventività spassosa e un tantino ripugnante del mondo animale); forza che, con ciò, resta di un’evidenza soffocante.

È vero che certe forme della natura inanimata (cristalli, nuvole, reti idrografiche) sembrano obbedire a un criterio termodinamico ottimale; ma è anche vero che si tratta solo delle più complesse, delle più ramificate. Che non rimandano in alcun modo al funzionamento di una macchina razionale, bensì al caotico ribollimento di un processo in atto.

Quando attinge il proprio livello ottimale nella costituzione di luoghi talmente funzionali da divenire invisibili, l’architettura contemporanea è un’architettura trasparente. Dovendo consentire una circolazione rapida degli individui e delle merci, tende a ridurre lo spazio alla sua dimensione puramente geometrica. Destinata a essere attraversata da una successione ininterrotta di messaggi testuali, visivi e iconici, essa deve assicurare una massima leggibilità (solo un luogo perfettamente trasparente è in grado di garantire una conducibilità totale dell’informazione). Subordinati alla dura legge del consenso, gli unici messaggi che autorizzerà saranno ricondotti a un mero ruolo d’informazione oggettiva.

Ecco perché il contenuto di quegli immensi pannelli che fiancheggiano i percorsi autostradali è diventato, in via prioritaria, oggetto di studi approfonditi. Ed ecco perché sono stati effettuati numerosi sondaggi per non mandare fuori di testa quella speciale categoria di utenti. Così come sono stati consultati da una parte degli psicologi-sociologi e dall’altra degli specialisti della sicurezza stradale. Il tutto per arrivare a realizzare segnalazioni del tipo “Auxerre” o “I laghi”.

La stazione Montparnasse, ad esempio, sviluppa un’architettura trasparente e non misteriosa. Stabilisce una distanza necessaria e sufficiente tra videoschermi d’informazione oraria e percorsi elettronici di prenotazione. Organizza con adeguata abbondanza la segnaletica relativa ai marciapiedi di partenza-arrivo, e permette perciò all’individuo occidentale d’intelligenza media o superiore di realizzare il proprio programma di spostamento minimizzando il disagio, l’incertezza, la perdita di tempo. Più in generale, tutta l’architettura contemporanea va appunto considerata un enorme dispositivo di accelerazione e razionalizzazione degli spostamenti umani.

Un miglioramento si produrrà, invece, se si considererà che noi non viviamo soltanto in un’economia di mercato, ma più in generale in una società di mercato, vale a dire entro uno spazio di civiltà in cui il complesso dei rapporti umani e, in parallelo, il complesso dei rapporti dell’uomo con il mondo risultano mediati da un semplice calcolo numerico che fa intervenire, nel computo, l’attrattiva, la novità e il rapporto qualità-prezzo.

All’interno di una tale logica, la quale coinvolge tanto le relazioni erotiche, amorose, professionali quanto i comportamenti d’acquisto propriamente detti, si tratta di agevolare la messa in opera multipla di rapporti relazionali consumati e rinnovati in fretta (tra consumatori e prodotti, tra operatori e aziende, tra amanti), dunque di promuovere una fluidità del consumo basata su un’etica della responsabilità, della trasparenza e della libera scelta.

Costruire corsie

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L’architettura contemporanea tende dunque a dotarsi di un programma semplice, così riassumibile: costruire le corsie dell’ipermercato sociale. E vi riesce da un lato manifestando una totale fedeltà all’estetica della scaffalatura, dall’altro privilegiando l’impiego di materiali a granulometria debole o nulla (metallo, vetro, materie plastiche). L’adozione di superfici riflettenti o trasparenti permetterà altresì una conveniente moltiplicazione dei prodotti esposti.

Si tratta, in tutti i casi, di creare spazi polimorfi, indifferenziati, modulabili (tra l’altro, il medesimo processo attualmente adottato nella decorazione d’interni: in questa fine secolo, predisporre un appartamento equivale sostanzialmente ad abbattere i muri per sostituirli con paratie mobili – il cui scorrimento avviene di fatto raramente, non essendoci motivo di farle scorrere; l’essenziale è solo che esista l’ipotesi della mobilità, che si sia creato un grado di libertà supplementare – e a sopprimere gli elementi decorativi fissi: i muri saranno bianchi, i mobili traslucidi). Si tratta di creare spazi neutri dove potranno dispiegarsi liberamente i messaggi informativo-pubblicitari frutto del funzionamento sociale, messaggi che peraltro ne costituiscono la struttura portante.

Che cosa producono, di fatto, quegli impiegati e quei quadri radunati nell’area della Défense? Per essere del tutto sinceri, non producono nulla; inoltre, anche il loro processo di produzione materiale è di- venuto perfettamente opaco. Vi vengono trasmesse informazioni numeriche sugli oggetti del mondo, informazioni che sono la materia prima di statistiche, calcoli; vi vengono elaborati modelli, prodotti grafi decisionali: tutto un processo al termine del quale si adottano decisioni, si reintroducono nuove informazioni in quel corpo sociale la cui corporeità, che è la corporeità del mondo, risulta sostituita dalla sua immagine numerica, essendo l’essere delle cose soppiantato dal grafico delle sue variazioni.

Polivalenti, neutri e modulari, i luoghi moderni si adattano all’infinità di messaggi ai quali devono fare da supporto. Non possono concedersi di emettere un significato autonomo, evocare una particolare atmosfera; né esprimere bellezza e poesia; e nemmeno, più in generale, alcun carattere proprio. Spogliati di ogni tratto individuale e permanente, ancorati alla loro condizione subalterna, saranno pronti ad accogliere l’indefinita pulsazione del transitorio.

Mobili, aperti alla trasformazione, disponibili, i moderni impiegati subiscono un processo di analoga spersonalizzazione. Le tecniche di apprendimento del cambiamento, popolarizzate dai centri stile new age, si prefiggono di creare individui indefinitamente mutevoli, deprivati di ogni rigidità intellettuale o emotiva. Liberato dagli ostacoli costituiti dall’appartenenza, dall’onere dell’osservanza, dai rigorosi codici di comportamento del passato, l’individuo moderno può dirsi pronto a prendere posto dentro un sistema di transazioni generalizzate, in seno al quale si è reso possibile attribuirgli, in maniera univoca e non ambigua, un valore di scambio.

Semplificare i calcoli

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La numerazione progressiva del funzionamento microsociologico, già molto avanzata negli Stati Uniti, arrivò in Europa con notevole ritardo. Ne sono testimonianza i romanzi di Marcel Proust. Ci vollero parecchi decenni per giungere alla completa acquisizione dei significati simbolici maturati in rapporto alle svariate professioni, fossero essi positivi (chiesa, insegnamento) o negativi (pubblicità, prostituzione). Una volta concluso questo processo di decantazione, divenne possibile stabilire una gerarchia precisa tra gli status sociali, sulla base di due semplici criteri numerici: il reddito annuo e il numero di ore lavorate.

Sul piano amoroso, anche i parametri dello scambio sessuale erano rimasti a lungo soggetti a un sistema di descrizione piuttosto vago, impressionistico, poco affidabile. E ancora una volta furono gli Stati Uniti gli artefici del primo serio tentativo di definizione degli standard. Fondato su criteri semplici e oggettivamente verificabili (età – taglia – peso – misure fianchi-vita-petto per le donne; età – taglia – peso – lunghezza del pene in erezione per gli uomini), il sistema venne prima sfruttato dall’industria porno, poi, a breve, diffuso dai rotocalchi femminili.

E se la gerarchia economica così semplificata incontrò per qualche tempo un’opposizione sporadica (movimenti favorevoli alla “giustizia sociale”), va notato che la gerarchia erotica, percepita come qualcosa di più naturale, venne rapidamente interiorizzata, e ottenne un immediato largo consenso.

Di lì in avanti, ormai abilitati a definirsi da soli in forza di una serie ridotta di parametri numerici, liberati dai pensieri metafisici sull’Essere che ne avevano a lungo ostacolato la fluidità dei movimenti mentali, gli esseri umani occidentali – quantomeno i più giovani – furono così in grado di adeguarsi alle mutazioni tecnologiche che stavano modificando le loro società, mutazioni che ebbero quale conseguenza una quantità di trasformazioni economiche, psicologiche e sociali.

Una breve storia dell’informazione

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Verso la fine della seconda guerra mondiale, sia la simulazione delle traiettorie di missili a media e lunga gittata sia la modellizzazione delle reazioni di fissione all’interno del nucleo atomico fecero sentire il bisogno di modi di calcolo algoritmici e numerici maggiormente potenziati. Grazie, in parte, ai lavori teorici di John von Neumann, videro la luce i primi computer.

Al tempo, i lavori d’ufficio erano caratterizzati da una standardizzazione e razionalizzazione assai meno progredite rispetto a quelle presenti nella produzione industriale. L’assegnazione dei primi computer ai compiti di gestione si tradusse immediatamente nella scomparsa di ogni libertà e naturalezza nell’esecuzione delle procedure – insomma, in una brusca proletarizzazione della classe impiegatizia.

Sempre nei medesimi anni, con grottesco ritardo, la letteratura europea dovette misurarsi con un nuovo strumento: la macchina per scrivere. Scomparve il lavoro indefinito e molteplice sul manoscritto (con le sue aggiunte, i rinvii, le postille), a vantaggio di una scrittura più lineare e appiattita; con un adeguamento, di fatto, alle norme del romanzo poliziesco e del giornalismo americani (apparizione del mito Underwood – successo di Hemingway).

Uno scadimento dell’immagine della letteratura che indusse molti giovani dotati di temperamento “creativo” a privilegiare le scelte più gratificanti del cinema e della canzone (scelte vincolate, senza sbocchi; tanto che l’industria dell’intrattenimento americana avrebbe di lì a poco iniziato lo smantellamento delle industrie dell’intrattenimento locali – smantellamento che oggi vediamo giungere al suo termine).

La comparsa improvvisa, nei primi anni Ottanta, del personal computer, può apparire come una sorta di incidente storico; infatti, non corrispondendo ad alcuna necessità di ordine economico, tale comparsa, qualora si prescinda da considerazioni tipo il progresso nella regolazione delle correnti elettriche deboli e nell’adozione del silicio monocristallino suona inspiegabile. In maniera inaspettata, gli impiegati da scrivania e i quadri intermedi si trovarono in possesso di uno strumento molto efficiente, di facile utilizzo, che consentiva loro di riprendere il controllo – di fatto, se non di diritto – delle coordinate principali del lavoro.

Per parecchi anni si consumò una lotta sorda, rimasta quasi ignorata, tra le direzioni informatiche e gli utilizzatori “di base”, a volte spalleggiati da gruppi di microinformatici free lance. E ancora più sorprendente fu il fatto che, prendendo man mano coscienza – mentre la produzione in serie favoriva la comparsa di materiali e di software per ufficio affidabili e a buon prezzo – dell’alto costo e della scarsa affidabilità dell’informatica pesante, le direzioni centrali finirono per privilegiare il settore della microinformatica.

Per lo scrittore, il pc fu una liberazione insperata: non si ritrovavano la leggerezza e il piacere del manoscritto, certo, ma comunque era di nuovo possibile dedicarsi a un lavoro serio su un testo. Negli stessi anni, non pochi indizi fecero pensare che la letteratura avrebbe potuto recuperare una parte del suo passato prestigio – non tanto per meriti propri quanto per la scomparsa di attività rivali. Rock e cinema, soggetti al formidabile potere di livellamento della televisione, persero infatti, poco per volta, la loro magia. Le precedenti distinzioni tra film, clip, attualità, pubblicità, testimonianze di vita vissuta, reportage presero a cancellarsi, a beneficio di una nozione di spettacolo generalizzata.

Nei primi anni novanta, la comparsa della fibra ottica e l’accordo industriale sul protocollo TCP-IP consentirono la nascita delle reti d’interconnessione prima tra privati e poi tra imprese. Tornato a essere un semplice strumento di lavoro all’interno di sistemi cliente-server divenuti più affidabili, il pc perse ogni capacità di trattamento autonomo. Ed ebbe luogo una normalizzazione delle procedure entro sistemi di trattamento dell’informazione più mobili, più trasversali, più efficaci.

Onnipresenti nelle aziende, i pc fallirono nel mercato domestico per ragioni analizzate con chiarezza solo in un secondo tempo (prezzo ancora elevato, assenza di utilizzo effettivo, scarsa maneggevolezza). Fino a che, alla fine degli anni Novanta, comparvero i primi terminali in grado di accedere a internet; sprovvisti in sé d’intelligenza e di memoria, quindi dotati di un costo di produzione unitario molto contenuto, furono concepiti per permettere l’accesso ai giganteschi database allestiti dall’industria dell’intrattenimento americana. Muniti di un dispositivo di telepagamento finalmente sicuro (almeno ufficialmente), di aspetto gradevole e leggeri, s’imposero rapidamente come uno standard, sostituendo sia il telefono portatile sia il Minitel sia il telecomando dei televisori tradizionali.

Al che, inaspettatamente, il libro rappresentò un energico polo di resistenza. Su internet vi furono tentativi di stoccaggio delle opere, ma il loro successo rimase circoscritto a esigue schiere di iniziati, limitato alle enciclopedie e alle opere di riferimento.

L’industria libraria seppe insomma convertirsi nel giro di pochi anni: così, reso più pratico, più attraente e meno ingombrante, l’oggetto-libro mantenne il favore del pubblico. Qualunque libro, una volta acquistato, si trasformava in uno strumento micidiale di disconnessione informatica. Nella chimica interna del cervello, la letteratura era spesso riuscita, in passato, a prevalere sull’universo reale; e ora non aveva nulla da temere dagli universi virtuali.

Da qui, l’inizio di un periodo paradossale, di una fase che dura ancora oggi, in cui la globalizzazione dello spettacolo e degli scambi – entro i quali il linguaggio articolato occupava un posto ridotto – dovette vedersela con il rafforzamento dei dialetti e delle culture locali.

Trad. Sergio Arecco


Il testo è un estratto da Interventi di Michel Houellebecq (La nave di Teseo 2022, pp. 480, euro 22)

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