Come le vite, le storie si somigliano e ogni personaggio è la replica d’un altro. Però il mercato del narrare è sconfinato e insaziabile perché non conta il fatto risaputo (l’uccidere, l’amare, restare oppure andare), ma la “variazione”.

È questa che rende particolare e perfino inimitabile ogni vicenda specie se l’industria provvede a massimizzare la cura di scrittura e l’efficacia della messa in scena. Così funzionano da sempre il teatro e il cinema nonché, da ultimo, le serie in piattaforma.

Queste sono cinema a puntate, ma su scala di produzione ingigantita perché non servono il cliente settimanale della sala, ma quello quotidiano dell’on demand che bimestralmente riceve le bollette.

Per fargliele pagare basta questo o quel capolavoro, ma serve la forza del catalogo che intrecci la qualità con l’abbondanza tanto da meritare la tariffa (l’on demand è, in sostanza, al polo opposto rispetto all’offerta gratuita, gassosa e lieve della tradizionale tv di compagnia).

Produzione multipolare

Spinte dalla loro logica di marketing le piattaforme online hanno saccheggiato per qualche tempo lo show business hollywoodiano, egemone nel secolo del doppio dopoguerra.

Potente, ma anche un po’ invecchiato dopo aver reso familiari a più generazioni le palme di Los Angeles, i villaggi western, lo stile di vita di New York, la provincia americana, il mito dell’individuo, normale o addizionato dai super poteri, che al momento buono arriva a risolvere i problemi.

Un repertorio formidabile di facce, ambienti, trame e sottese concezioni che oggi si logora nel consumo intenso nato con le piattaforme che serializzano il cinema portandotelo a casa.

E così Netflix e simili, nati distribuendo l’Hollywood che c’era, ora vanno a caccia di modi di narrare, sfondi storici e produzioni considerate in precedenza marginali. E la stessa Hollywood come sistema di poteri e pur nella tensione fra major e piattaforme, partecipa all’impresa, al punto da segnalare con l’Oscar i titoli stranieri a scapito di quelli americani.

L’espansione strutturale della produzione mondiale di racconti raggiunge la massima efficacia quando coniuga la radice locale con un linguaggio universale. Riesce cioè a mantenere la propria differenza affinché nel globo ognuno trovi, insieme allo spasso che gli spetta, la sorpresa dell’avventura cognitiva.

La sorpresa cognitiva nelle serie

Avviene così che attraverso le serie, oggi, e ancor più in futuro, lo spettatore esplori il mondo non meno che con l’informazione e il documentario. E forse gli riesce anche meglio, perché di per sé stessa la narrazione favorisce l’empatia ed è immersiva. Così, puntata dopo puntata, l’esotico viene assorbito per osmosi e diviene familiare vincendo la sfida della paura nei confronti del diverso.

Le serie coreane guidano la fila perché provengono da un’industria tanto scaltrita da sfoderare uno Squid Game.

Ma si fanno strada la Turchia col fotoromanzo, la Polonia con la distopia, la Scandinavia col crimine ghiacciato, Israele con le turbe religiose di Shtisel o la convivenza disperata di arabi ed ebrei, l’India con le storie a mezza strada fra il rustico e l’urbano, l’Africa che affila i suoi racconti fra la Tanzania e la Nigeria.   

S’avanzano perfino concept che giocano su luoghi comuni e difetti transnazionali, come quello usato per Vincenzo, il ragazzo coreano dimenticato dalla madre e rinominato da un super boss mafioso che l’adotta e gli trasmette l’arte. È carino, veste snello all’italiana, lo accompagnano le arie di Puccini (divenute pop dai Tre Tenori in poi).

In poche mosse liquida un rivale del papà adottivo mandandogli a fuoco la tenuta nella Toscana da copertina in cui dimora. Poi lo seguiamo in Corea sulle tracce di un tesoro da sottrarre all’equivalente locale dei mafiosi.

La serie, in sostanza, cala il coreano all’italiana in una Corea che apprezza il made in Italy e gioca con le dinamiche fra “simili diversi” aggiunte di un tocco surreale. Dopo un paio di episodi già sentivamo un’aria di famiglia, segno che l’escursione cognitiva stava funzionando, tant’è che vorremmo replicare l’esperienza cercandone altre simili.

Ma con metodo e non scoprendola in un titolo trovato un po’ per caso. Qui casca l’asino di Netflix, ovvero dell’algoritmo di segnalazione che a questi fini serve a poco.

L’algoritmo reticente

L’algoritmo di Netflix, non diverso da quelli delle altre piattaforme, sembra infatti il frutto della strategia di marketing più piatta e non funziona per l’avventura culturale. Quindi se è vero che la produzione globale vive un’espansione gigantesca, potremmo dire che l’algoritmo non riesce a rifletterla, a meno che non si tratti di voluta reticenza.  

Quando apri la homepage di una piattaforma on demand trovi alcune liste: i titoli “ultimi usciti”, i “più visti”, quelli che hai messo da parte e, finalmente, quelli “scelti per te”, che nel caso nostro pullulano di fantascienza e azione riflettendo il curriculum delle visioni accumulate.

Evidentemente all’algoritmo non è stato spiegato che noi sappiamo quello che ci piace e siamo comunque capaci di scovarlo senza che l’intelligenza artificiale se ne faccia carico. Ci  basterebbe infatti un elenco scorrevole (e non macchinoso come quelli attuali) dell’intero archivio, accompagnato, titolo per titolo, dalle indicazioni di genere, interpreti e regia.  

Assai più utile e seducente sarebbe semmai l’aggiunta di qualche lista con titoli “scelti da…”, in cui al posto dei puntini ci fosse un assortimento di utenti anonimi con visioni differenti dalle nostre, tanto meglio se quanto a gusti e residenza si trovassero agli antipodi.

Sono dati che la piattaforma, va da sé, possiede e che sicuramente legge a favore del marketing.

Per noi quelle evidenze sarebbero l’avvio del videogioco del confronto, un’esperienza cognitiva, un panopticon del nostro essere simili e diversi con cui cacciare un po’ della muffa che sedimenta nel cervello a forza di contemplarci autoreferenti nello specchio  

Sarebbe poi fantastico se l’algoritmo effettuasse l’analisi profonda delle storie. Quali sono, questa e la domanda, le componenti che ci attraggono o che seducono maggiormente noi rispetto agli altri? Quali chiavi, momenti, strutture, dialettiche di caratteri e modi d’espressione ci attraggono verso certe situazioni indipendentemente dal genere di trama in cui si trovano.

Scovare il bandolo delle affinità nelle molecole e non nel corpo compiuto dei prodotti è ovviamente un lavoro duro, ma perfetto per la velocità dell’intelligenza artificiale che funziona provando e riprovando fino a imbattersi in costanti che adotta come regole.

Qualcuno ci prova con la musica on demand e corrobora il consumo di cultura. Il video on demand dovrebbe anch’esso farlo a meno che non s’accontenti di uno svogliato algoritmo mezze maniche.   

Peraltro ci viene il dubbio, quasi la certezza, che l’algoritmo già operi più che alacremente, ma che le compagnie si tengano stretti i risultati. In questo caso spunterebbe la contraddizione fra la natura sociale del database (riempito dei dati che noi consumando produciamo o, meglio, produciamo consumando) e il sequestro privato di tanto culturale ben di dio. A partire da un simile contrasto (noi lavoriamo e tu fai i soldi) Marx ha sviluppato un mondo di pensiero. Noi cominceremmo a farci un pensierino.

© Riproduzione riservata