Ottantadue milioni di spettatori in un mese: è la platea record registrata nel 2020 dalla prima stagione di Bridgerton, la serie-polpettone rosa più temerariamente kitsch della scuderia Netflix. All’epoca, tanto per dare un’idea, La casa di carta si fermava a quota 65 milioni. Fino al 2019 però faceva punteggio solo chi aveva seguito almeno il 70 per cento di un programma. Secondo i nuovi parametri invece bastano due minuti per essere censiti dall’algoritmo.

Il trash romantico di Bridgerton fa presa perché lo sfarzo mondano dell’età della reggenza mutua l’idea di lusso dalle influencer: bigiotteria pacchiana, outfit vistosi e architetture pilifere da carnevale. Chris Van Dusen, creatore della serie, cavalca un erotismo patinato da fantasie di desperate housewife. È incredibile che la grancassa mediatica ne abbia fatto un campione dell’inclusione.

Progressisti per forza

C’è una regina afro a capitanare una nobiltà inglese ottocentesca spensieratamente multietnica: puro e odinario marketing, includere è il business. Nei primi otto episodi, la diafana Daphne Bridgerton riusciva a impalmare il duca di Hastings, ossia quel quarto di manzo (mi si passi l’epiteto sessista) di Regé-Jean Page, sexy attore britannico di origine zimbabwese.

È il genere di anti razzismo che le veline praticano da sempre coi calciatori: bello, ricco e famoso, sai che sforzo. Ha sollevato polemiche l’indecenza di cannibalizzare battaglie serie a mero fine di ascolti, e la seconda stagione della soap opera (chiamiamola col suo nome), che ha debuttato il 25 marzo su Netflix, evita almeno di sbandierare medaglie progressiste.

Punti di partenza

La nuova love story, inevitabilmente contrastata, sterza su Bollywood. Il sugo del plot è che un visconte britannico, sempre della casata Bridgerton, deve sposare un’aristocratica nata a Bombay. Ma in realtà ama segretamente sua sorella: nuove etnie, nuovi rituali.

È comprensibile l’attenzione dei sociologi verso prodotti ad alto budget e di planetario successo come quello in questione. È merce che fa tendenza e che ha consistenti ricadute commerciali. Tra gli effetti collaterali di Bridgerton c’è un’impennata dell’84 per cento della voce “guanti lunghi” nelle ricerche degli utenti, tanto su Instagram che su TikTok.

C’è un altro aspetto da considerare. Non sono una lettrice di Julia Quinn, autrice best seller della saga che ispira la serie. Ma in questa seconda stagione, basata sul secondo romanzo del ciclo (The viscount who loved me), lo sfruttamento dell’innocente Jane Austen è così plateale da risultare urticante.

Darcy ed Elizabeth Bennett rivivono smaccatamente in fotocopia l’iter delle loro schermaglie. Netflix smercia la vulgata di Orgoglio e pregiudizio in versione confetto, e Julia Quinn incassa i diritti. Non c’è vero plagio, e fa bene. Ma il punto è che quando le grandi piattaforme spostano fior di quattrini per un kolossal in costume cercano sempre conforto all’ombra di Autori con la maiuscola.

L’età dell’oro

La controprova, in casa Sky, è la serie targata Hbo The gilded age. Il barone Julian Kitchener-Fellowes, benemerito autore di un’epopea di culto come Downton Abbey e già sceneggiatore Oscar di Gosford Park per Robert Altman, attraversa l’Atlantico per misurarsi con l’upperclass newyorchese del 1882.

Fellowes, che è il re indiscusso del period drama di qualità, si lascia dietro di parecchie spanne le grossolanità storiche di Bridgerton. Perdendo però il suo humus aristocratico di riferimento fa appello a un’altra grande della letteratura, Edith Wharton.

Wharton è il puntello cui ancorare l’universo della big apple ricca e spietata di quegli anni. Perfino un titolo come L’età dorata trasuda la stessa amara ironia di L’età dell’Innocenza e La casa della gioia, titoli cardine della scrittrice. Da The house of mirth, in particolare, lo sceneggiatore attinge a piene mani', per mettere a fuoco la scalata sociale dei nuovi potenti dell’industria e il declino orgoglioso dei nipotini della Mayflower.

L’ispirazione

La ferocia della pagina scritta non è compatibile con la scrittura seriale, The gilded age smorza i toni e l’eroina protagonista non riproduce la parabola tragica di Lily Bart nel primo Novecento raccontata dalla scrittrice: è materia troppo cruda per una platea popolare.

Ma le figure, i conflitti, le bellicose dinamiche di competizione e di esclusione negli anni in cui nuove, spudorate ricchezze stanno scalzando i vecchi equilibri sono palesemente le stesse. Tra le lussuose magioni della 61a strada esplode un conflitto senza esclusione di colpi, perché uno squalo del boom ferroviario e la sua ambiziosa consorte passeranno, in metafora, su infiniti cadaveri per affermare la nuova supremazia del dollaro. Fellowes sbriciola Julia Quinn, va da sé: ma trattasi sempre e comunque di nani sulle spalle di giganti.

Seduttivo come Dickens

C’è posto anche per Charles Dickens, nella serialità. Netflix ha finalmente deciso di riesumare Taboo, la strepitosa miniserie britannica del 2017 ideata da Tom Hardy (anche protagonista, tra comprimari eccellenti) con suo padre Edward “Chips” Hardy e con Steven Knight.

Taboo è un capolavoro dark, da tempo era irrintracciabile. Non pesca direttamente da Dickens: l’incesto e l’esoterismo non sono materie sue, e nemmeno i traffici negrieri della Compagnia delle Indie. Ma i bassifondi sulle rive del Tamigi sono quelli de Il Nostro comune amico, il suo romanzo più bello e dannato: pure visioni dickensiane.

È gioco facile agganciare un pubblico a netta prevalenza femminile –  statistiche alla mano – con un armamentario di seduzione che spazia dai corsetti al profumo dei veri classici. Più complicato è convincerlo a schiodare dal divano di casa per andare al cinema a inebriarsi di vita reale.

Una forza della natura

Il 31 marzo è uscito un film che disintossica dalle vie di fuga in streaming e fa rimettere i piedi per terra. Chissà perché la distributrice I Wonder Pictures non l’ha fatto uscire per l’8 marzo. Ha vinto come miglior film e migliore interpretazione femminile nella sezione Orizzonti di Venezia 2021, senza avere alle spalle letteratura, come è ormai regola per il cinema e la tv.

Metto a confronto Full time (A’ plein temps) di Eric Gravel con le serie d’epoca perché è esattamente agli antipodi. Racconta la vita ordinaria, a velocità massima, di un’ordinaria mamma lavoratrice, single per separazione e puntualmente sottoccupata e sottopagata.

Succhia l’anima e il corpo di un’attrice-rivelazione dell’ultimo cinema francese, Laure Calamy. Calamy è stata lanciata da una delle serie tv più amate di questi anni, Chiami il mio agente: era la spiritosa Noémi, segretaria-amante del capo.

Ha vinto il César per un film incantevole di Caroline Vignal che in Francia ha fatto gridare al “nuovo Rohmer”: Io, lui, lei e l’asino (in originale era Antoinette dans les Vosges, noi italiani abbiamo il dono dei brutti titoli). Non è una bellezza da copertina, ha passato i 40 da un pezzo ed è una forza della natura.

Contrattempi del vivere

In Full time, la sfida ordinaria di far quadrare il lavoro “alimentare” da cameriera d’hotel, la quotidiana trasferta in città dal paesino in cui vive e l’assistenza di una vicina che le tiene i figli diventano una mission impossible quando Parigi va in tilt per gli scioperi generali di inizio 2020.

Trasporti pubblici paralizzati, ritardi a raffica sul lavoro, ultimatum a 360 gradi e pochi soldi per far fronte all’emergenza. Ma no surrender, nessuna resa: non è un film epico, ma Julie è una supereroina della realtà.

Ci sono occasionali imbarazzi – quando Julie “ci prova” con un vicino che le ha dato un passaggio – e occasionali black out dell’anima che il film intercetta con folgorante finezza, senza mai perdere quel ritmo indiavolato che è il suo passaporto speciale.

In controluce c’è tutto quello che la serialità d’evasione rimuove, e magari la guardi per questo: i turni che si allungano, i salari che scendono, i ricatti continui dei datori di lavoro, le professionalità calpestate, soprattutto se sei  donna. Come li definiva, da geniale minimalista, Grace Paley? Piccoli contrattempi del vivere.

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