A diciott’anni, più o meno come tutti, ho preso subito la patente. Avevo una grande smania di guidare e andare in giro. Infatti, sia da solo che con amici o amiche, appena potevo mi mettevo in macchina per andare di qua e di là. E circa dieci anni dopo che avevo preso la patente mio padre un giorno mi ha detto che si era fatto due calcoli e mi ha accusato, secondo le sue stime non c’erano dubbi, di aver fatto con la sua macchina, e quindi anche con la sua benzina, almeno 300mila chilometri.

Io questo suo calcolo cercavo un po’ di contestarlo, ma la macchina a quel punto aveva fatto all’incirca 380mila chilometri, quindi la stima che mio padre aveva fatto doveva avvicinarsi abbastanza alla verità, anche perché lui, poveretto, ormai la macchina non riusciva a usarla quasi più.

Smania per la macchina

Per di più io stavo ancora finendo di studiare, e quei 300mila chilometri fatti con la sua macchina io li avevo fatti principalmente andando a spasso, e non per lavoro, muovendomi su e giù per la provincia di Modena e Bologna, con frequenti puntate nel reggiano, e un po’ più rare puntate nella zona di Parma e di Ferrara. Decisamente più rari e occasionali, devo dire, erano stati i giri nelle zone di Piacenza, Ravenna, Forli e Rimini.

Ma ogni tanto andavo anche a Prato a trovare un mio amico. Se in casa a studiare mi stavo annoiando, andavo al balcone della cucina, guardavo se in cortile c’era la macchina parcheggiata, e se c’era, zac, macchina fino a chissà dove.

C’era ancora una gran smania per la macchina, e io l’ho usata più o meno come un cavaliere medievale usava il suo cavallo in cerca d’avventura, anche se le avventure erano sempre fatte di tra il niente e il non so cosa (a proposito della smania di usare la macchina devo dire che verso i vent’anni con Gianni Pecchini una mattina su tre ci trovavamo per andare al bar Embassy a fare colazione insieme e lui in quel periodo aveva una Centoventotto sport che gli aveva procurato per pochi soldi suo zio, che faceva il carrozzaio e aveva sempre dei giri di macchine usate, ed era una macchina che andava benissimo, neanche piano, ma la sua, essendo molto usata, a freddo aveva spesso qualche problema di accensione e bisognava spingerla per farla partire, e comunque, anche se da casa nostra al bar Embassy ci saranno stati all’incirca 150 metri, in genere, piuttosto che andarci a piedi, spingevamo per 30 metri la sua macchina perché si accendesse, poi facevamo due giri dell’isolato sgasando per scaldarla, poi parcheggiavamo la macchina davanti all’Embassy, facevamo colazione e tornavamo a casa in macchina).

Fare un giro

E comunque, anche se mio padre mi aveva accusato di usargli troppo la macchina, io indubbiamente questa tendenza al vagabondaggio l’avevo ereditata da lui che dopo un’ora ch’era in casa mi diceva: «vin meg?», «dove?», «a fer un gir», «dove?», «in giro».

Finita l’università ho continuato a girare, anche se un po’ di meno, e più che altro per lavoro ho continuato a fare per una decina di anni dai 50 ai 100 chilometri in macchina quasi tutti i giorni. Mi davano delle supplenze nelle scuole della provincia di Modena, ch’è stretta ma è lunghissima, e ci sono questi paesi distantissimi, per esempio: Finale Emilia, 45 chilometri; Pavullo, circa uguale; Mirandola, 35 chilometri e così via.

E se ci penso, conosco moltissime strade e anche moltissimi nomi di strade, e mi vien subito da pensare, essendo mezzo bolognese, alla Porrettana, strada che ho fatto migliaia di volte. Anche se uno che sta qua per prima cosa dovrebbe nominare la via Emilia, perché abitiamo in una regione che ha preso il suo nome, ma forse si è anche formata, intorno a questa lunga strada che l’attraversa tutta, fatta più di duemila anni fa. E io tra l’altro un pezzetto di via Emilia, la via Emilia ovest di Modena, per cinque anni l’ho fatta tutti i giorni per un tratto di tre o quattro chilometri, scarrozzato dai miei su una Centoventiquattro, per andare alla scuola elementare, perché i miei mi avevano iscritto in questa scuola a tempo pieno che praticamente si affacciava sulla via Emilia ovest (in realtà era a una cinquantina di metri di distanza dalla via Emilia, su una piazzetta). 

E quindi allora dobbiamo iniziare dicendo via Emilia, che tra l’altro, nell’anno scolastico 2003/2004 per un anno ho lavorato a Castelfranco Emilia, e quindi per un altr’anno mi sono fatto tutti i giorni altri 30 chilometri di via Emilia, 15 a andare e 15 a tornare. Ma lasciando la via Emilia subito dopo diciamo Porrettana. E andando avanti a pensare a tutte queste strade che conosco, ancora dopo mi viene in mente la fondovalle Panaro, strada fatta mille volte con mio padre; poi l’Estense, o fondovalle del Tiepido (lì, poco dopo Torre Maina, c’era una vecchia fornace dove mio padre andava a raccogliere i mattoni deformati dalla cottura e scartati che usava per qualche mese come soprammobili, poi li sostituiva con nuovi scarti che gli piacevano di più).

Tra acqua e sobborghi

Perché poi tutte le fondovalli, che nei loro percorsi si avvicinano e si allontanano da dei fiumi, e mentre vai a un certo punto di colpo ti vedi saltar fuori il fiume che è lì, con l’acqua e i sassi, magari veramente a pochi metri, e poi la strada sale un po’ e il fiume si allontana e momentaneamente scompare, e vedi delle case, oppure soltanto degli alberi, e però due chilometri dopo la strada ridiscende e ti ritrovi di nuovo quasi al fiume, e anche la Porrettana è una fondovalle, e non so se si chiami anche fondovalle Reno, o si chiami soltanto Porrettana, cioè la strada per Porretta, come anche la Bazzanese e la Vignolese, cioè la strada per Vignola e la strada per Bazzano, tutte strade che prendono il nome dalla località di arrivo, e tutte queste strade in qualche modo mi stanno care per tanti motivi, o che ci passavo per andare in un posto particolare, oppure che ci passavo per andare a trovare qualcuno, ma se penso in particolare alla Vignolese, e poi alla Bazzanese, strade che io ho spesso percorso per andare nella casa di mia madre sull’Appennino bolognese, quasi in Toscana, e percorrevo prima la Vignolese verso il casello dell’Autostrada del Sole, e poi magari, se l’Autostrada del Sole era bloccata, andavo avanti per immettermi prima sulla Bazzanese e poi sulla Porrettana, ma tra Vignolese e Bazzanese ho sempre fatto una scorciatoia di qualche chilometro, forse cinque, su delle stradine secondarie, che offre questa straordinaria sequenza di nomi di frazioni, perché prima incontri una frazione che si chiama Altolà, poi due chilometri dopo c’è un gruppo di case che si chiama California, e pochi chilometri dopo c’è Formica, e fin da bambini, quando eravamo in macchina, io e mia sorella ridevamo come matti a guardare questa sequenza di cartelli con Altolà, California e Formica. Li vicino c’è anche Muffa.

Ma tornando a queste varie strade, sulle quali ho consumato quintali di gomme e di benzina mi viene anche da pensare alla Radici in Piano, cioè alla strada per Sassuolo, dove andavo spesso con mia madre che a Sassuolo ci lavorava, cioè ci insegnava, e ci andavamo soprattutto nei mesi di giugno, luglio e agosto, quando la scuola era finita, perché mia madre andava in banca a prender lo stipendio, e mi ricordo che spesso in quei mesi le davano anche gli arretrati, e quindi, appena usciti dalla banca mi portava da qualche parte e mi regalava qualcosa, per cui questa strada Radici in Piano, se non sono in momenti di particolare cattivo umore, ha sempre avuto la caratteristica di mettermi di buon umore, come se ancora adesso, tutte le volte che faccio la radici in piano, arrivati in fondo ci fosse qualcuno che vuol darmi dei soldi.

E la Radici in Piano l’ho poi percorsa spesso in anche un’estate in motorino, nel mese di luglio in cui compivo 16 anni, che avevo deciso di andare a lavorare in una fabbrica per tirar su i soldi per comprarmi il motorino, e poi mio padre mi aveva anticipato i soldi e avevo poi comprato il motorino per andare a lavorare, perché coi mezzi pubblici era un po’ proibitivo, ma poi c’erano talmente tanti di quei camion sulla Radici, che quando sei in motorino e te li senti passare di fianco ti fanno un po’ spavento, per cui dopo un po’ non facevo più la Radici in Piano ma cercavo di arrivare fino agli sterminati sobborghi a fabbriconi di Sassuolo facendo i vari pezzi delle stradine secondarie parallele. E da Sassuolo partivano altre strade che entravano nelle prime colline, e io nelle due ore di pausa pranzo prendevo il motorino e andavo a mangiarmi un panino in collina, ma a un certo punto, se volevi, ti incrociavi con la pedemontana, e con quella in tre chilometri eri già nel Reggiano.

Sistema logico

Perché tutte le strade dell’Emilia-Romagna hanno una loro stessa logica piuttosto ferrea, con questi lunghi assi est-ovest, costituiti dalla via Emilia, dall’Autostrada del Sole e dall’A14 Adriatica, e appunto dalla pedemontana, tutte più o meno parallele tra di loro, e perpendicolarmente a questi assi est-ovest invece trovi tutte le fondovalli in direzione nord-sud, e in mezzo a tutte queste strade maggiori ti trovi l’infinito reticolato di tutte le piccole strade secondarie e talvolta anche minime.

E queste fondovalli, che a me piaceva tanto percorrere in quello che chiamerei il loro tratto sud, diciamo a partire dalla via Emilia e andando verso la montagna, con tutte le loro curve ampie che si allontanano e poi si riavvicinano all’alveo del fiume vivo, con l’acqua, e in certi orari sono anche abbastanza vuote di traffico, in modo che si possa andare spediti, ma invece io volevo poi parlare di queste fondovalli nel loro tratto nord, il tratto che va dalla via Emilia al Po, come il Canaletto o come la Panaria Bassa, queste strade lunghe e tendenzialmente dritte, con dei puri rettilinei talvolta lunghi anche cinque o sei chilometri, cinque o sei chilometri completamente dritti, e poi di colpo un amplissimo curvone verso destra, e poi un poco più avanti, per esempio un chilometro, magari un altro curvone che invece va verso sinistra, anche quello amplissimo, e magari dei tratti alberati, come in un viale di città, anche se invece sei in piena campagna e intorno non c’è niente, coi tigli o i platani, e queste strade spesso hanno da una parte l’argine, e la Panaria Bassa, strada che io ho dovuto fare, sempre per lavoro tutti i giorni per tre anni, e all’inizio ero così contento, e ero contento quando dopo tre chilometri lasciavo la Nonantolana e mi buttavo sulla Panaria Bassa, che iniziava proprio attaccata all’argine, e poi via, a gran velocità per non arrivare in ritardo, su questa Panaria Bassa, e lì, andando in direzione nord, sempre alla tua destra l’argine, tanto che durante quei tre anni mi ero detto mille volte che prima o poi, mentre tornavo in dietro, avrei voluto fermarmi mezz’ora a passeggiare sull’argine per vedere in che stato era il fiume, e poi invece, visto che a tornare indietro uno ha sempre un po’ di furia di ritornare perché è stanco, oppure perché deve andare da qualche parte, però è andata a finire come al solito, cioè che non mi sono mai fermato.

E anche lì, davvero, due o tre rettilinei di una lunghezza sterminata, e ogni tanto invece un borgo di due o tre case, letteralmente due o tre case e basta con intorno cinque o sei di quei pioppi immensi; io su questi rettilinei guardavo l’orologio, vedevo che ero a pelo di ritardo, magari acceleravo; poi però, vedendo delle strane figurine in movimento in zona strada un chilometro più avanti, magari attaccavo a rallentare un po’, che non si sa mai cosa possa fare la gente a bordo strada, e tutto questo sempre con quell’argine che si vedeva a destra, a distanza variabile dalla strada: dieci metri, 30 metri, 200 metri, che tra la strada e l’argine in mezzo c’era una fila di cinque o sei case, e poi di nuovo l’argine si allontanava dalla strada, poi tornava lì, ma proprio in fondo, poco prima di Finale, una serie bellissima di curve che durerà cinque chilometri, e l’argine che spariva di colpo lontanissimo, e poi non lo vedevi più, coperto da un quartiere industriale con fabbriche e ceramiche, e se volevi rivederlo dovevi attraversare tutto Finale Emilia.

Queste strade con argini io le ho sempre trovate meravigliose. Quando ho cambiato luogo di lavoro, e facevo per l’ultima volta la Panaria Bassa, nella mia testa mi dicevo «basta, basta basta basta, mai più Panaria Bassa», perché dopo tre anni che l’avevo fatta tutti i giorni, andando come un pazzo per non arrivare in ritardo, tutti i giorni 100 chilometri, 50 a andare e 50 a tornare, io di quella strada non ne potevo proprio più. E invece, soltanto cinque o sei mesi dopo, che ero dovuto tornare in questo scuola per prendere della documentazione, facendo la Panaria Bassa e guardando argine e case sparse e saltuari fabbriconi, mi ero detto subito «ma accidenti, ma come bella questa strada».

L’avvenimento

Anche sul Po mi piaceva andarci, e percorrere la strada dell’argine golenale verso Gualtieri, Guastalla e Boretto oppure verso Bondeno e Stellata con le sue meravigliose grandi chiuse della Bonifica di Burana dove per tanti anni ci aveva lavorato mio nonno. Quando sei fortunato stando sulla strada dell’argine golenale, quando sfiori i paesi, te li vedi dall’alto, come se tu stessi andando a altezza tetti, infatti stai andando a altezza tetti, come un uccello, mentre dall’altro lato, dentro la golena hai i pioppeti, e pioppeti e pioppeti, e poi a un certo punto invece il Po che è lì, sbuca di colpo fuori a pochi metri da te, e poi si allontana e di nuovo ancora pioppeti e pioppeti e pioppeti.

Perché per me l’avvenimento è questo, che tutte le strade sono belle, e sono belle perché in sostanza son fatte di aria aperta, immense quantità di aria aperta intorno a te, aria aperta dove ci finiscono altre cose, vive e non vive, naturali e artificiali, di continuo, e anche se sei lì per strada per lavoro, e quindi a prima vista non dovresti neanche divertirti, ma a un certo punto può sempre esserci qualcosa che ti passa davanti. Negli ultimi tempi, per esempio, che ho fatto l’Autostrada del Sole, almeno due o tre volte al mese, almeno una volta su due, che uscivo al casello di Sasso Marconi, due cornacchie grigie appollaiate sul guardrail, le avrò viste forse venti volte, forse di più, e queste cornacchie grigie che ormai frequentano tranquillamente le strade, e si sono abituate alle macchine, varie volte le ho viste tranquille passeggiare in corsia d’emergenza nel tratto appenninico, incuranti delle macchine che stanno passando a neanche due metri da loro, come se avessero imparato che sulla corsia d’emergenza stanno al sicuro.

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