In un’epoca di discussione sull’inquietante capacità dell’intelligenza artificiale di sostituire l’intelletto e l’ispirazione umana, c’è qualcosa di anacronistico, di splendidamente nostalgico, nel pensare al dibattito sulla fine delle riviste stampate in favore dei contenuti online.

Mentre tutti si domandano se gli articoli del futuro, se le future traduzioni, saranno opera di una macchina o ancora di bravi giornalisti e giornaliste, traduttori e traduttrici, ha ben poca importanza chiedersi se poi questi finiranno su una pagina di carta o su una pagina virtuale.

Però il saggista statunitense Patrick Radden Keefe, firma del New Yorker, una delle ultime riviste di carta a sgomitare nel mare magnum delle pubblicazioni online senza aver rivoluzionato sostanzialmente la propria offerta e il proprio stile, resta affezionato alla questione e, nell’introduzione alla sua raccolta di saggi narrativi Ribelli – storie vere di assassini, truffatori e sovversivi (pubblicata da Mondadori per la traduzione di Manuela Faimali) solleva un’interessante prospettiva.

Scrivere pericolosamente

Da quando era ragazzo, dice Keefe, è stato affascinato dal racconto giornalistico lungo: quello che oggi si definisce longform investigativo.

Trascorreva giorni perso nei corposi racconti di storie reali, negli approfondimenti di fatti di cronaca, nell’esplorazione certosina e densa di dettagli narrativi di ciò che accadeva al mondo; nel semplice osservare la realtà che, come ha detto la leggenda del racconto giornalistico americano Joseph Mitchell, «è l’unico modo per giungere a una verità oggettiva. Non spettacolare, magari, ma oggettiva».

Mitchell, all’inseguimento della sua realtà oggettiva, batteva i bassifondi, i docks di Manhattan, il Greenwich Village tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta per allontanarsi dalla società intellettuale che gli avvelenava la prospettiva, condendogliela di un’irrealtà tossica e plastificata che toglieva oggettività alla sua prospettiva letteraria. Oggi la definiremmo “bolla”.

Quando è venuto il suo turno di scegliere che tipo di scrittore avrebbe voluto diventare, Keefe non ha avuto dubbi: voleva scrivere longform per il New Yorker.

Lo ha fatto per quasi vent’anni, dal suo debutto nel 2006. Per quasi vent’anni ha girato il mondo in cerca di storie, focalizzandosi soprattutto sull’indicibile, sul violento, sull’illecito. Il suo modo, aggiornato e adeguato ai tempi, di discostarsi dalla bolla per andare a caccia della sua realtà oggettiva, uscendo dall’ambito del conosciuto e del confortevole e infilandosi nell’ignoto, possibilmente pericoloso, certamente poco chiaro.

Un’applicazione alternativa al motto gonzo di Hunter S. Thompson: «Scrivi quello che vuoi, ma scrivi stando scomodo». La sua specialità, sapientemente modellata e coltivata in decenni di studio sul campo, è diventata quella di scavare attorno alle situazioni più complesse e misteriose, in cerca di una soluzione che fosse sfuggita a chi avrebbe avuto il compito di fare chiarezza.

Così si è trovato a indagare il fascino internazionale esercitato dal “Chapo” Guzmán, forse il più pericoloso e sanguinario narcotrafficante contemporaneo, all’indomani del suo clamoroso arresto – procurandosi una telefonata di un legale del Chapo che gli chiedeva se non volesse scrivere la sua autobiografia, opportunità poi sapientemente rifiutata malgrado la generosa prospettiva economica per paura di doversi adeguare a una realtà tutt’altro che oggettiva; si è gettato a capofitto sulla storia familiare del temibile gangster olandese Wim Holleeder, stabilendo un contatto diretto e privilegiato con sua sorella Astrid, che attraverso un complesso piano di registrazioni e intercettazioni ne aveva causato l’arresto definitivo e, con le sue testimonianze, l’incriminazione, prima di essere costretta a vivere sotto copertura; ha sviscerato la vicenda di Amy Bishop, una professoressa di biologia all’università dell’Alabama che durante una riunione di dipartimento ha aperto il fuoco su sei colleghi, uccidendone tre, e ne ha ripercorso la storia a ritroso fino al giorno in cui Bishop, allora ventenne, ha ferito a morte suo fratello minore con un colpo, probabilmente ma non certamente accidentale, di fucile.

E poi: ha inseguito le tracce di un presunto falsario di vini, raccontato la storia di Mark Burnett, produttore televisivo che con il suo The Apprentice ha santificato Donald Trump, ha seguito lo chef Anthony Bourdain in una delle sue ultime avventure prima della tragica fine.

La domanda di Keefe è sempre la stessa e ricalca l’interrogativo primario di Mitchell: cosa c’è oltre a ciò che racconta la cronaca?

Il Chapo è un sadico patologico, oppure rincorre la sua brama di ricchezza? Astrid Holleeder è un’eroina costretta a una vita di restrizioni, oppure una donna animata da manie di protagonismo? E Bishop ha in effetti sparato al fratello per errore, o si è trattato dell’avvisaglia di un un’instabilità più grave e mai riconosciuta?

Per dirla tutta, non sempre giunge alle conclusioni illuminanti auspicate da Mitchell, ma il solo fatto di sollevare gli interrogativi attraverso un lavoro di ricerca minuziosissimo e a tratti avventuroso, lo pone a un livello narrativo notevole in un campo d’azione nel quale in pochi hanno l’ardire di avventurarsi, soprattutto di questi tempi, nei quali le bolle hanno assunto le proporzioni di piccoli ecosistemi così complessi e intricati da dare l’illusione di essere l’ambiente maggioritario.

Storie immortali

Quando, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta del Novecento, Truman Capote, Joan Didion, Paul Theroux, V.S. Naipaul, venivano spediti dai loro direttori all’inseguimento di una storia, lo facevano con mandato pressocché illimitato, tanto dal punto di vista del racconto – potevano procedere come meglio credevano e prendere la direzione che sembrava loro più adeguata – quanto economico – inutile girarci intorno: il settore editoriale era florido e questo benessere sembrava destinato a non declinare mai.

Ogni volta che Keefe si imbarca in una nuova impresa, sa che sta arrampicandosi lungo un pendio scivoloso e incerto. Può ancora godere di una dose di libertà creativa, ma si trova sempre a domandarsi che futuro avrà il frutto del suo sudato e per niente scontato lavoro. «Stiamo scrivendo su carta destinata a raccogliere l’unto del fish-and-chips», ha detto il giornalista britannico Christopher Hitchens, «mentre la televisione, con la sua estenuante semplificazione, rimane a plagiare i posteri».

Hitch parlava da un’altra epoca, nella quale la rivoluzione mediatica non era ancora compiuta, ma sintetizzava bene una visione che, cambiando i media, assilla molti.

Assilla anche Keefe, naturalmente, che tuttavia è approdato a una conclusione, forse autoassolutoria ma assolutamente condivisibile: lo stesso giornalismo online che sta – o stava prima dell’avvento delle devastanti AI – uccidendo la carta, sta anche regalando l’immortalità ad articoli e racconti che hanno richiesto molti mesi, in certi casi anni, di ricerca e stesura e che, fino un decennio fa, erano destinati a una vita brevissima.

Una settimana, nel caso del New Yorker, prima di soccombere al proprio destino di carta non tanto per il fish-and-chips, quanto magari per le patatine di qualche diner bisunto. Il concetto stesso di magazine era fondato sulla deperibilità. La vita delle riviste era relegata al tempo della lettura e poi i numeri venivano smaltiti, smarriti, persi, dimenticati fino al momento di domandarsi: «Dov’è che ho letto quella storia?».

Ecco, internet, divorando indubbiamente gran parte delle economie commerciali dell’editoria, ha anche fornito un orizzonte temporale infinito alle pubblicazioni e nuova linfa vitale ai lettori affamati di contenuti avvincenti e corposi, al binge compulsivo e a nutrirsi di storie vere. Ricorda un po’ Capote che, dopo il primo incontro con Richard Hickock che lo avrebbe ossessionato per tutta la scrittura di A sangue freddo, si domandava: «Cosa resterà di questa mia passione insana?». Ecco, quelle di Keefe, per lo meno ora sono immortali.

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