Lo dico subito: sto recensendo il libro di mia madre, e sono abbastanza sicura che esista un girone infernale dedicato appositamente a chi fa una cosa del genere, un tantino più sopra di quello dedicato a chi scrive recensioni anonime su Amazon per screditare scrittori concorrenti.

Quando mi è stato chiesto di scrivere di lei – e soprattutto quando ho accettato con colpevole entusiasmo – mi sono un po’ sentita Rory Gilmore, la protagonista dello scoppiettante Una mamma per amica (i titoli adattati al mercato italiano sono sempre di un’idiozia unica): per sette stagioni mammona estremista (ma per fortuna nell’ultima si salva con una serie di decisioni borderline che la rendono più simpatica allo spettatore).

Per una figlia, parlare della madre dall’esterno, come farebbe qualcuna che sua figlia non è, è un’operazione fantascientifica: deve uscire dalla Terra della simbiosi a bordo di uno space shuttle fatto di lucidità e poi guardare freddamente, districandosi nella materia oscura dello scrutare una madre da fuori, cosa impossibile perché il rapporto madre-figlia è sempre un dentro che si protrae per sempre, e allora sarà tutto un “oscuro scrutare”, come diceva Philip Dick, anche se lui parlava di droghe che separavano gli emisferi cerebrali.

Ma l’officina letteraria simbiotica di me e mia madre non somiglia tanto alle atmosfere di Una mamma per amica (una cittadina fittizia e una musica pacificante in sottofondo) quanto a una puntata di Ristoranti da incubo, dove lo spietato Gordon Ramsay irrompe in cucine caotiche e con il fare di un boia elenca tutti i difetti, estetici e culinari, del menu allo scopo di migliorarlo: anche io e mia madre, al momento di leggerci a vicenda, irrompiamo nei nostri rispettivi libri con spietatezza, perché più delle coccole familiari – riservate alla vita fuori dalla scrittura – ci interessa studiare gli ingredienti della letteratura e creare le ricette migliori che possiamo. Cominciamo elencando i pro e poi affondiamo il coltello con i possibili miglioramenti.

Un giudice spietato

Sono sempre stata il giudice più spietato dei suoi libri, come lei è sempre stata il giudice più spietato dei miei. A otto anni, dopo aver scritto il mio primo racconto lungo su una bambina assassinata, mia madre, impallidendo, mi ha subito costretta a trasformarla in una bambola: l’editor incontrava le apprensioni di una madre che temeva per l’immaginario oscuro della figlia. Ed eccomi qui a fare la stessa cosa: leggerla come lei lesse il mio quaderno pentagrammato e darle un voto, anzi peggio, un pensiero critico stampato su carta. Sono imperdonabile?

A mia difesa devo dire che il mio gesto ha un’ampia tradizione alle spalle. Il figlio di Charles Dickens non si è mai posto alcun problema nel lavorare nella rivista del padre, poi ereditata alla sua morte (ma abbandonata poco dopo). H.G. Wells, addirittura, è due volte colpevole: il figlio Anthony, nato da una relazione con la scrittrice Rebecca West, scrisse una biografia del padre, mentre l’altro figlio G.P. Wells collaborò con il padre e con Julian Huxley alla stesura di The science of life. E che dire della figlia di Roald Dahl, Tessa, che sviscerò la vita del padre in un libro e poi passò il testimone letterario-confessionale alla propria figlia, Sophie?

La non-soluzione

Purtroppo Diavoli di sabbia (il libro scritto da mia madre Elvira Seminara, Einaudi) è bellissimo, e dunque siccome sono onesta non posso essere cattiva. Però posso spiegare perché è bellissimo, come se fossi una meteorologa che parla dei veri diavoli di sabbia.

Ci troviamo in Sicilia, e piove sempre. Già questo presupposto instaura un bizzarro patto con il lettore, che è più o meno: questa storia è realistica ma irrealistica, poggia su un paradosso, su un cortocircuito dell’abitudine.

Si sa, infatti, che in Sicilia non piove quasi mai, e quando accade cala su tutti uno stupore tale da fermare il traffico e gli eventi, e troppo spesso allagare le strade con risvolti apocalittici. Ed è proprio in uno stupore costante, nonché in un costante allagamento emotivo, che si muovono i personaggi del libro: lo stupore di fronte ai cambiamenti continui della vita, che anche nel suo svolgersi ordinario non è mai ordinaria, proprio per questi acquazzoni in agguato dietro i rapporti all’apparenza più equilibrati.

Infatti, in questo diluvio psichico universale, non è sicuro camminare da soli: tutti si muovono in coppia, e il romanzo è scandito da queste coppie, di cui una apre e chiude il cerchio, Iris e Rodolfo.

Forse allora fuori dalla coppia – da queste coppie sbandate e fragili, nevrotiche, introspettive, non lontane da quelle di Woody Allen – ci sarebbe la soluzione, ma lo sguardo del libro, che è puramente dialogico, è puntato proprio sull’estetica della non-soluzione: il dialogo è uno scontro che, in quanto tale, ammette un solo vincitore o la resa di entrambi.

Se nell’immaginario degli anni Novanta Jack moriva congelato in mare per lasciare a Rose l’intera anta dell’armadio mentre il Titanic colava a picco, e come risultato lei lo amava per sempre, nel 2022 – epoca disastrosa di guerra e di pandemie – ha più senso inabissarsi insieme, che tanto il futuro non sembra promettere granché, e persino l’amore, con Tinder e simili, ha perso urgenza e poesia.

Un romanzo di vortici

Come il fenomeno atmosferico del titolo, questo libro è un romanzo di vortici, di risucchiamenti centripeti e speculari. I diavoli di sabbia avvengono soprattutto nel deserto, e infatti questo romanzo parla di deserti relazionali: la coppia sposata divisa da un tradimento segreto, la madre che tenta in modi poco ortodossi di attirare a sé l’affetto della figlia, la figlia a sua volta terrorizzata da una casa che, come il romanzo stesso, è scatola nera di traumi e scompensi sentimentali. E poi le gemelle diversissime, forse inconciliabili, che guidano nelle polveri verso un luogo che si rivela inesistente, e i due ragazzi che si amano finché un coma li divide.

E all’esterno di tutte queste storie la matrioska più grande: una donna che ha ucciso il marito o forse l’ha solo sognato.

E allora, se sogno e verità dei fatti viaggiano alla stessa velocità, che ne è del reale? Possiamo farne a meno, perché questo è un romanzo dialogato e il dialogo, scorporato dalla scena, è una trascendenza, una voce intrappolata in un congegno, come quella della moglie morta del protagonista dello splendido Drive my car, che lui aveva registrato per fare le prove del suo spettacolo e che continua a utilizzare post mortem, come uno sciamano in comunicazione invasata con i defunti.

Siamo tutti sciamani invasati quando l’affetto ci mette alle strette, che sia per un lutto o per un amore difettoso, e allora ci mettiamo a comunicare con l’invisibile di ciò che è stato o di ciò che potrebb’essere.

Giochi di carta

Mi ricorda, questo libro che muta tra le mani di chi legge, quei giochi enigmatici e dipinti a mano che mia madre aveva da piccola, dove giravi una ruota e cambiava l’immagine. Me li aveva mostrati tanti anni fa, tirando fuori ricordi da una cassapanca, e mi avevano stupito per il loro incantesimo che era una combinazione di delicatezza e anacronismo (con la tecnologia, come con la linearità della comunicazione social, si è perso il mistero. La manualità si è fatta algoritmo, la contemplazione si è fatta like).

In questo libro, come in quei giochi di carta, cambiano i volti del sé. I personaggi, tutti, sono parti di un io più grande che li contiene. Sono eventualità di una stessa anima, tutte intrappolate in una stessa matrioska di incomprensione e desiderio.

Come un frattale, l’inceppo comunicativo si ripete identico su scale diverse, e a volte la lente precisa e fantasiosa della scrittura ingrandisce un volto, una sillaba, un’esitazione, così che le altre cambiano posto, in un divertentissimo cubo di rubik di equivoci e malinconie.

Mi fermo qui. Alla fine mi sono comportata bene. Non so se, come Rory Gilmore, approderò a una fase ribelle in differita (da adolescente l’ho saltata), ma per ora, temo, nel romanzo di mia madre non c’è bambina uccisa che cambierei con una bambola.

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