Qualsiasi discorso sull’Italia del 1943-1945 deve muovere da almeno due considerazioni preliminari. La prima: è la guerra la misura della vita politica, sociale, economica dell’Italia per il decennio che va dalla guerra d’Etiopia (1935-1936), trascorrendo per la guerra civile spagnola (1936-1939) e l’impresa d’Albania (1939), sino al secondo conflitto mondiale (1940-1945).

Unico tra i paesi europei, dal 1935 al 1945 l’Italia è di fatto ininterrottamente in guerra. Non è dunque possibile prescindere da tale pervasiva condizione bellica per comprendere la natura e le ragioni della crisi di regime, tanto meno per restituire la varietà delle motivazioni e dei percorsi che conducono all’opzione per la guerra partigiana.

La scelta resistenziale

La guerra obbliga alla “presa di possesso del concreto”, espressione straordinariamente pregnante di Giaime Pintor, un’intera generazione, quella vissuta nel e del fascismo, che si trova a condividere il rapporto tra guerra e presa di coscienza, segnando – sempre con le parole di Pintor – «il superamento definitivo dell’antitesi fascismo-antifascismo, e con lo scoppio della guerra ci poneva di fronte a una prassi che istintivamente noi sentimmo più urgente e più ampia».

In questo senso, Ferruccio Parri avrebbe ricordato come nel 1943, all’8 settembre, «c’è sì un risveglio improvviso, che sorprende», ma «lo storico deve sapere che se è cosa improvvisa non è improvvisata […] a intendere come il 1943 non faccia che precipitare lunghe maturazioni anteriori».

La scelta partigiana seguita all’implosione di ogni autorità politico-statuale e militare con l’8 settembre sarebbe stata certo un atto di «disobbedienza a chi aveva la forza di farsi ubbidire […] una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù», come ha scritto Claudio Pavone. Ma lo scatto della decisione che si consuma in un momento, brucia nell’attimo ciò che si è accatastato nel tempo.

È in questa dialettica tra moralità e spontaneità che va colta la scelta resistenziale. Il 1943 è il momento che palesa l’opzione attiva, ma ciò che rende possibile quell’opzione ha tempi e modi di maturazione che vanno colti nei tanti tragitti che muovono da tanti differenti punti di partenza.

Uomini e donne del loro tempo, i “resistenti” hanno affermato bisogni e ideali di libertà, approdandovi per tante vie diverse, maturando quei valori in una tensione esistenziale che assomma in sé esperienze, sentimenti, gradi variabili di consapevolezza, contrasti e debolezze. Tanto più si è in grado di restituire la sofferta umanità di questi percorsi, quanto più si coglierà il significato universale – e la portata tuttora attuale – di quelle scelte maturate individualmente.

Frammentazione

La seconda considerazione consiste nel rammentare che una visione unitaria della storia di quel periodo è possibile solo muovendo dalla consapevolezza che le guerre del fascismo portano nel 1943 all’“esplosione” del paese, che si frammenta in tanti diversi territori con tante differenti esperienze della guerra: di qui passa senza particolari scosse, di là giunge improvvisa come un fronte di fuoco che in un tempo breve distrugge ciò che incontra, ancora più in là, invece, si sofferma per mesi, provocando una dilatazione sensoriale del tempo, in cui la familiarità con la dimensione bellica pare quasi renderla una condizione immanente (è quanto accade nei territori a cavallo delle due principali linee difensive tedesche, la Gustav a sud e la Gotica a nord).

Lo spazio fisico e quello politico-istituzionale, inoltre, sono divisi tra due occupazioni militari – quella alleata, che sta risalendo la penisola, e quella tedesca, che si ritira aggressivamente, combattendo metro per metro – e tre autorità di governo: il Regno del Sud, la Repubblica sociale e l’organizzazione clandestina dei Comitati di liberazione nazionale.

Ancora, vivere il conflitto in città oppure in campagna produce una scissione esistenziale talora estremamente radicale: i cittadini sono convinti che i contadini li affamino, e la situazione in ambito urbano è aggravata dalla paura dei bombardamenti, dalla fatica del razionamento e del mercato nero, dall’ansia della presenza massiccia e costante di nazisti e fascisti, generando un senso di precarietà permanente; mentre nelle campagne il pericolo delle razzie di uomini e risorse da parte degli eserciti di passaggio, nonché l’esposizione alle rappresaglie e ai massacri, rompono i ritmi tradizionali della vita, frantumano gli schemi della quotidianità travolti dalla sensazione della minaccia incombente.

In un quadro così scomposto, infine, il contatto e la conoscenza da vicino della Resistenza riguardano gli italiani da Roma in su, e solo da Firenze in su nella stagione più matura del movimento partigiano.

Gli scioperi del 1943

FOTO ARCHIVIO ISTITUTO PIEMONTESE PER LA STORIA DELLA RESISTENZA E DELLA SOCIETà CONTEMPORANEA “GIORGIO AGOSTI”

Il 1943 è senza alcun dubbio il momento in cui questa disarticolazione dei percorsi individuali e collettivi viene in superficie. È in marzo che si annuncia la crisi d’autorità del regime e delle strutture deputate al governo della società in guerra, posta in evidenza da un nuovo protagonismo politico-sociale del mondo operaio.

Nella seconda metà degli anni Trenta la classe operaia era andata ampliandosi per l’espansione dell’industria bellica, assumendo giovani apprendisti in via di professionalizzazione, orgogliosi del lavoro, portatori di una identità operaia forte. Nella loro vita la fabbrica assume un rilievo quasi esclusivo, tanto per il prolungarsi dei tempi di lavoro, quanto perché le condizioni esterne agli stabilimenti impongono una dilatazione dei tempi di vita comunque legati al lavoro. Con la guerra, inoltre, la forbice tra dinamica salariale e ritmo della crescita dei prezzi si trasforma in un baratro incolmabile, sospingendo i redditi delle classi lavoratrici verso una condizione di vera e propria miseria.

La condivisione dell’inasprimento della fatica e della disciplina, nonché della “fame” permanente, fanno risaltare gli aspetti inaccettabili della situazione lavorativa e di vita. Le difficoltà della vita quotidiana, dentro e fuori la fabbrica, e il crescente discredito del regime rendono possibile trapassare dal malcontento e dalla protesta individuale alla protesta di gruppo.

La concretezza delle rivendicazioni è la caratteristica degli scioperi operai del marzo-aprile 1943: si reclama il pagamento dell’indennità di sfollamento, si chiedono “pane”, mense aziendali, aumenti salariali, l’attenuazione della disciplina di fabbrica e il miglioramento delle condizioni di lavoro. La matrice alimentare è evidente e predominante ovunque. In questo senso si tratta quindi di scioperi economici, non politici. Che però tradiscono un contenuto intrinsecamente politico nell’esibire il fallimento del fascismo nel governo del fronte interno, nel mostrare la non adesione alle ragioni della guerra da parte della classe operaia. Sono messi a nudo i limiti della mobilitazione e la crisi d’autorità del regime. Ne è un frutto e contribuisce ad accentuarla.

Ci sono i comunisti a sostenere la protesta, a volerla, ma è il contesto favorevole, dopo Stalingrado, a renderla possibile.

Lavoro e conflitto sociale

Il ciclo della protesta operaia della primavera 1943 dunque non solo contribuisce a rendere conclamata la crisi di regime in atto, ma presenta sulla scena gli attori di una nuova generazione operaia – di lì a poco tra i protagonisti della Resistenza – e delinea i valori di cui sono espressione e al contempo portatori attivi: la centralità del lavoro e la funzione positiva del conflitto sociale.

Il lavoro ora non è più uno strumento per la edificazione della nazione, ciò che aveva consentito l’equiparazione retorica dell’operaio al soldato tipica del pensiero di destra europeo, ma è un valore in sé in quanto fondamento dell’identità, della realizzazione di sé, del progetto di riscatto ed emancipazione. E il conflitto è lo strumento principale per difendere il lavoro e affermarne la centralità. È il luogo privilegiato della selezione e dell’addestramento dei quadri e dei militanti della classe operaia, come proprio gli avvenimenti del marzo-aprile 1943 dimostrano, con effetti che si protrarranno ben oltre il 1945, sino al ciclo di lotte di fabbrica degli anni Cinquanta.

La guerra contribuisce così a indurre un processo di politicizzazione della società italiana, a ridare impulso al dissenso, a erodere la capacità del fascismo di controllo e mobilitazione passiva delle masse.

L’8 settembre 1943

Tutto ciò si renderà evidente l’8 settembre, quando le scelte collettive e quelle individuali matureranno nell’intreccio essenziale tra le urgenze della situazione e il simultaneo definirsi, nei singoli e nei gruppi, della inevitabilità di schierarsi.

I militari, abbandonati a se stessi dall’implosione del regio esercito, dalla fuga del re e delle gerarchie, sono liberati da ogni vincolo, il soldato e l’ufficiale sono restituiti a se stessi. Non v’è solo l’incapacità a decidere che assilla i più, si manifesta anche la recisa volontà di battersi.

Non senza paradosso, la «ribellione a ciò che eravamo stati obbligati a essere», come l’ha definita Alessandro Natta, o, nella definizione di Dante Livio Bianco, la «protesta vivente», si accendono quando i militari cessano di essere tali, quando tornano liberi dal dovere dell’obbedienza, quando «nulla, che non fosse la voce della coscienza e il senso del dovere, direttamente costringeva a fare il partigiano».

La volontà e la decisione di combattere si affermano nel momento in cui si sveste la divisa, quasi che con essa ci si potesse liberare anche delle incrostazioni e delle scorie dell’esperienza della guerra fascista. Caduta ogni forma d’autorità, svincolati da patti di lealtà, si sceglie – quando non ci si abbandona alla deriva – ciò che si ritiene più giusto. Gli italiani, e non solo quelli in divisa, sono posti loro malgrado di fronte a una inedita esperienza di libertà: che può inebriare ed entusiasmare, oppure spaventare e paralizzare. Non vi sono, nella maggior parte dei casi, termini di riferimento. Il fascismo e l’esercito avevano abituato all’obbedienza, alla passività.

Il riscatto di un esercito che passa dunque attraverso la guerriglia: un paradosso non di poco conto, se si pensa che uomini addestrati alla “grande guerra”, alla “guerra regolare”, devono ritrovare il loro onore militare nella “piccola guerra”, nella “guerra irregolare”. E in questo paradosso, in fondo, si rivela simultaneamente il dramma del crollo dell’istituzione militare e il fondamento di una possibile rigenerazione dell’onore di combattenti, sull’esempio di coloro che nei paesi occupati proprio contro gli italiani si erano battuti.

Come scrive il 1° ottobre Paolo Caccia Dominioni, già maggiore degli Alpini, decorato con la croce di ferro ed encomio solenne da Rommel in Africa, «dobbiamo imitare quanto ci hanno insegnato […] gli stessi ribelli jugoslavi che dovevamo tenere a bada, o i francesi che da tre anni sono “au maquis” e rendono assai difficile la vita al nemico occupante».

Formazioni territoriali

Gli sbandati dell’esercito italiano trovano rifugio presso le abitazioni contadine, come anche indumenti da sostituire alle divise, cibo per rifocillarsi, e lo stesso vale per i prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di detenzione. Agisce in tal senso la simpatia contadina verso chi fugge gli obblighi militari, il ricordo ostile verso il tedesco, il senso di solidarietà verso chi è inseguito, l’estraneità e la contrarietà, come già nel 1915, alla guerra. E non manca di giocare un ruolo importante il piccolo clero, l’unica autorità capillare nelle campagne, che si schiera diffusamente a sostegno di questa stagione di solidarietà.

Al soldato sbandato e al prigioniero di guerra si aggiunge ben presto il giovane renitente, verso il quale la solidarietà viene in questo caso garantita dalla stessa appartenenza alla comunità locale. Sono i figli dei contadini che si danno alla macchia, raggiunti da loro coetanei che fuggono da paesi e città e si aggregano ai figli della comunità, diventandone membri a loro volta. Questo è spesso il nucleo originario delle prime bande, ciò che le rende legate al territorio, al luogo specifico, che le esprime e le accoglie benevolmente in sé. Anzi, sono queste le bande che riescono nella fase d’impianto della Resistenza a stabilire i migliori rapporti con la popolazione.

I fattori che facilitano il mantenimento di un legame positivo con i contadini sono legati alle comuni origini sociali, oltre che territoriali. L’attività di queste formazioni tende a una pulsione difensiva, a proteggere la comunità e i suoi beni, quasi rievocando antichi principi di autogestione.

Lo mostrano chiaramente nell’estate-autunno 1944 le esperienze dei territori liberi, le cosiddette “repubbliche partigiane”: la guerriglia dava vita al tentativo di creare e controllare uno spazio partigiano, al contempo politico, sociale e militare, antagonistico e alternativo allo spazio di guerra presidiato da fascisti e nazisti.

L’avvio di forme di governo e amministrazione del territorio con personale elettivo e che si occupa dei più urgenti problemi della vita collettiva è un segnale evidente della volontà di affermare l’autonomia di quelle aree nell’ambito di un’area controllata sino a quel momento da truppe di Salò e del Terzo Reich, allo stesso tempo proponendolo come un esempio della capacità della Resistenza di farsi organo di autogoverno del luogo.

Forza e debolezza

Qui sta la forza e al contempo la debolezza della Resistenza: la forza è data dalla capacità di esercitare la supremazia militare in un dato territorio, indebolendo la capacità di controllo da parte dei tedeschi, sottoposti alla necessità di mobilitare permanentemente forze in grado di ristabilire la sicurezza nelle aree esposte agli attacchi della guerriglia; la debolezza è il frutto della connotazione spesso localistica delle formazioni partigiane, che nel rapporto privilegiato, quando non esclusivo, con un determinato territorio senza dubbio si garantiscono radicamento e vigore militare, ma poi faticano a disporre di una conoscenza d’insieme di quanto accade nello spazio della guerra, quindi ad accettare di operare oltre l’orizzonte territoriale noto.

Tanto più la Resistenza è in grado di inserire in un quadro generale le azioni che si compiono nei singoli luoghi, tanto più il dominio tedesco sullo spazio si indebolisce. Viceversa, quanto più la guerra partigiana prende forma e si esaurisce localmente, quanto più la repressione tende ad avere successo e a garantire il controllo dello spazio.

Questo è l’ambito ove indagare i rapporti tra partigiani e popolazioni, la cui variabilità è notevole, ma è anche il luogo ove verificare i caratteri del mutamento dei “fuorilegge” in partigiani, attraverso un’esperienza collettiva spesso originata dal “ribellismo” ma poi spinta verso una crescente consapevolezza.

Perché si entra nella guerriglia? Roberto Battaglia rispondeva che l’impulso originario era quello di “mettersi fuori legge”, «per farla finita con un vecchio mondo che era crollato o stava crollando intorno a noi, e il desiderio nel tempo stesso di ricostruirne uno nuovo». Nelle parole del pastore che portava informazioni in brigata, questa argomentazione si esprimeva nella forma del sogno di poter portare il proprio gregge ove meglio ritenesse opportuno. Un sogno che Battaglia traduce nei termini della «aspirazione a una sconfinata libertà da conquistarsi con le armi, che per quel pastore si configurava, né poteva essere altrimenti, nel libero uso del suo ambiente naturale».

L’aspirazione alla “sconfinata libertà” e la rivendicazione di autonomia (tanto come sfera soggettiva di esercizio della decisione e dell’autogestione di sé, quanto come tensione all’autogoverno) costituiscono la cifra essenziale e un modo di fare i conti con i tratti distintivi della storia dello stato italiano, di quell’esperienza minoritaria di massa che è stata la Resistenza.

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