Nel 1991 Hans Georg Gadamer tenne una lezione affollatissima nell’aula anfiteatro dell’Università Statale di Milano, la 201, il cui ingresso al piano rialzato sporge sul piccolo atrio da cui si dirama il corridoio su cui si affacciano le aule al pianoterra della Facoltà di Lettere e filosofia.

Gadamer, che aveva allora 91 anni, ma conservava l’amabilità di un puer aeternus, incantò l’uditorio cominciando la sua lezione in italiano – una lingua che, come rivelò lui stesso tra lo stupore generale, aveva cominciato a studiare tardi, ormai ottantenne, ma che gli risultava familiare per via della somiglianza col latino.

Chi scrive era seduto tra il pubblico allora, studente tra gli studenti. Come tutti ero felice e onorato di poter ascoltare dal vivo una leggenda vivente della filosofia del Novecento – l’autore di Wahrheit und Methode, allievo prediletto di Martin Heidegger, amico/nemico di Jürgen Habermas – e curioso di capire che effetto facesse trovarsi faccia a faccia con un maître à penser, per di più un filosofo che esercitava con cognizione di causa un sapere pratico sapienziale, non nemico del senso comune, ma nemmeno succube delle mode del tempo.

Già allora, tuttavia, era difficile farsi un’immagine nitida di questa maschera moderna, sospesa com’era in una terra di mezzo tra passato e futuro. Siccome l’intellettuale militante era sul punto di diventare un pezzo di antiquariato e il culto delle celebrities scientifiche era solo agli albori, c’era spazio sufficiente per chiedersi quali doti dovesse avere uno studioso per giustificare l’attesa e l’attenzione febbrile da cui era circondato quel giorno Gadamer. Perché, anche se veneriamo il pensare da sé, andiamo alla ricerca di maestri? Che cosa ci aspettiamo esattamente dalle loro parole?

Identità moderna

Il 5 novembre Charles Taylor, prolifico filosofo canadese, autore di almeno un paio di studi fondamentali sulla civiltà moderna, Radici dell’io (1989) e L’età secolare (2007), compie novant’anni. Come è giusto comportarsi in questa occasione? È nostro dovere, forse persino interesse, celebrare questa ricorrenza speciale con la riconoscenza che si deve a una guida intellettuale insostituibile oppure ha senso limitarsi a registrare l’evento con l’attenzione svagata che riserviamo più o meno a tutto ciò che ci capita attorno?

Siccome considero Charles Taylor a tutti gli effetti un maestro del nostro tempo, vorrei provare a spiegare qui perché dovremmo approfittare della circostanza per manifestargli la nostra gratitudine nell’unico modo che conta per chi ha dedicato la propria vita al pensiero, cioè leggendolo con la generosità ermeneutica che permette di imparare cose essenziali persino da ragionamenti che magari non condividiamo fino in fondo.

Il mio suggerimento è di concentrare l’attenzione sul modo in cui Taylor interpreta, sullo sfondo di un’originale antropologia filosofica, l’identità moderna come una delle tante possibili risposte, storicamente contingenti, alle sfide pratiche e teoriche incapsulate nella condizione umana. La modernità, nell’ottica simultaneamente storica e sistematica che egli adotta in Radici dell’io, non rappresenta né la fine della Storia né un progetto incompiuto in senso stretto. Va vista piuttosto come l’apertura di un inedito campo di tensione spirituale dispiegatosi attorno ai concetti, agli immaginari e alle pratiche della libertà personale diffusisi nelle società europee a partire dal Cinquecento e attorno ai quali prende forma un nuovo prototipo di soggettività (interiorizzata, potenziata, schermata).

La tensione scaturisce in particolare dalla diversità dei beni che sono alla base della proliferazione di significanti, significati e referenti dell’idea moderna di libertà: autonomia e autenticità, autodeterminazione e autorealizzazione, emancipazione e riconciliazione, libero arbitrio e common agency, ecc. Non solo il discorso filosofico della modernità, ma l’intero travaglio sociale e spirituale della nuova forma di vita, riflettono sia i conflitti a somma zero tra tali beni sia i periodici tentativi di sintesi (teorica o pratica) che essi incentivano. Il risultato è quel dinamismo senza precedenti che è il tratto distintivo più evidente della civiltà emersa in Europa dalle turbolenze e dalle contraddizioni della cristianità latina.

Valutazione forte

Dei dilemmi che tormentano la passione moderna per la libertà abbiamo accumulato evidenze a iosa nei quasi due anni di emergenza sanitaria che abbiamo alle spalle, ma dove Taylor ci fa fare veramente un passo in avanti nella comprensione della forma mentis moderna è attraverso la sua concezione del fenomeno della “valutazione forte”, che rappresenta allo stesso tempo il nocciolo e il centro di gravità della sua antropologia.

La sua tesi, in breve, è che gli esseri umani si distinguono da qualsiasi altra creatura terrestre perché a loro, e solo a loro (per quanto ne sappiamo) si dischiude la dimensione del “valore” nel suo senso più forte, non riducibile cioè al fatto contingente delle inclinazioni del soggetto in carne e ossa.

Nell’esperienza della “strong evaluation”, in altri termini, il potere di ciò che conta veramente si distribuisce sia dal lato del valutatore sia dal lato dei beni a cui viene attribuito un valore speciale. Il primo, cioè, non è puramente attivo, ma è anche ricettivo nei confronti di una forza ideale che ha un rapporto talmente stretto con la sua identità personale da non consentire alcuna forma di distacco. Detto in parole più semplici, il bene a cui viene riconosciuto un valore “forte” – ad esempio, la libertà – non è tale perché il soggetto che lo incorpora o lo trova incorporato nella propria forma di vita lo desidera o lo apprezza, ma perché il suo essere-degno-di-essere-desiderato si impone indipendentemente dalle inclinazioni accidentali del valutatore. I moderni, a dispetto della loro predilezione per l’autodeterminazione, non sfuggono a questa regola costitutiva del gioco umano.

La forza normativa di tali beni, a ogni modo, non è autosufficiente, non si interpreta da sé. Per questo è un’enorme fonte di dinamismo: reclama, cioè, una qualche forma di articolazione da parte di chi ne subisce l’influenza. È in atto qui un processo di co-creazione perché l’intensità con cui il soggetto moderno si consacra alla causa di uno dei suoi iperbeni (l’autonomia, il rispetto della persona umana, l’infinita potenza creatrice della Natura) dischiude una dimensione del reale allo stesso tempo enigmatica e irriducibile che esige di essere sviluppata, definita, estrinsecata in costellazioni storiche finite, situate, incarnate.

L’espressione della libertà, per tornare all’esempio del “sommo” bene moderno, può essere a seconda dei casi personale (nei rapporti d’amore romantico), oppure sociale (la solidarietà democratica con i propri concittadini o connazionali), oppure cosmica (la relativizzazione naturalista di ogni convenzione sociale), ma ha sempre qualcosa di sperimentale in un’accezione non banale. Le valutazioni forti sono “forti”, cioè, anche nel senso che creano tensioni strutturali: contrappongono l’alto al basso, il nobile al meschino, il degno all’indegno, l’umano al disumano. Detto altrimenti, sono alla base di dolorosi processi trasformativi perché, al fondo, la loro posta in gioco è chi noi siamo, che tipo di persona vogliamo e scegliamo di essere, come possiamo evitare di vivere vite che non meritano di essere vissute.

In effetti, nella prospettiva di Taylor il fenomeno della valutazione forte mette l’individuo in contatto con le fonti, le radici, il fulcro stesso della propria identità personale. Questo è il fondamento sia del sentimento di urgenza che ogni persona umana, per funzionare pienamente, deve sperimentare almeno in alcuni momenti della propria esistenza ordinaria, sia di quella trama di scrupoli, immagini di pienezza, senso vivido dell’alterità che siamo soliti associare all’esperienza individuale o comunitaria del sacro. La permanenza della religione anche in un’età secolare è un altro elemento cruciale dell’interpretazione tayloriana del significato storico della scommessa moderna.

Voci affidabili

Ecco, in sintesi, la “maestria” di cui ha dato prova Taylor nella sua lunga vita di studioso. Se veramente, come recita il titolo del libro che ho ideato e curato per festeggiare i suoi novant’anni, la modernità si trova oggi di fronte a un bivio (e le sfide gigantesche che abbiamo di fronte ne sono una prova quasi tangibile), Taylor non è il tipo di maestro a cui ha senso rivolgersi quando, di fronte a una scelta difficile, uno sente il bisogno di sentirsi dire in che direzione procedere.

Il maestro che cercavo trent’anni fa quando mi sono seduto tra i banchi scomodi dell’aula 201 e che molte persone cercano ancora oggi, non è un cervellone capace di compiere quella decisione difficile al nostro posto, ma una voce affidabile che può aiutarci a capire meglio che tipo di bivio sia quello che abbiamo davanti, se sia davvero il bivio principale o se invece quello decisivo non sia già alle nostre spalle o si presenterà più avanti e, soprattutto, che cosa davvero significhi quel bivio per noi.

Per quel che vale, posso dire che per me, nei tempi duri e interessanti che stiamo vivendo, avere studiato a lungo i libri di Taylor è stato un po’ come avere fatto un vaccino trivalente contro l’impazienza, la superbia, la miopia intellettuale. Un altro buon motivo per ringraziare il cielo di avergli regalato una vita lunga e creativa fino a tarda età. La sfida con Gadamer è ancora aperta.


Charles Taylor è autore del libro Modernità al bivio. L’eredità della ragione romantica, edito da Marietti e a cura di Paolo Costa

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