Le “drag queen” competono in un reality show che in realtà ha una funzione educativa contro i pregiudizi. Anche se sembra solo un gioco, ha un significato più profondo che mette radici nella società
- Mi pare che l’aspetto più spaventevole (per i bigotti) della legge Zan siano i programmi di educazione contro l’omotransfobia che prevede.
- Qualche giorno fa, sulle pagine di questo giornale, Walter Siti stroncava con rassegnata acribia il ventennale di Amici di Maria De Filippi, piangendone la transizione inesorabile dal formato della scuola a quello della reality tv.
- Il contrario accade qui negli Stati Uniti con uno dei più premiati e pedagogicamente raffinati talent show, RuPaul’s Drag Race. La prima cosa che s’impara guardandolo è che il mestiere di drag queen è un gioco serio: costa esercizio e dedizione, si può valutare come una versione di greco, come uno sport.
Mi pare che l’aspetto più spaventevole (per i bigotti) della legge Zan siano i programmi di educazione contro l’omotransfobia che prevede. Più che il diritto a odiare, si difende un tendenzioso diritto a non capire, a rifiutare di organizzare la sessualità, l’orientamento, l’attrazione, l’identità in categorie separate e comunicanti, fluide ma chiare come l’acqua sorgiva; in dati e costrutti che uno può studiare, smontare e rimontare in classe, spiegare come fossero brani di realtà e non sospet



