Per chi lo ha conosciuto all'inizio della sua carriera, Marco Mengoni, 34 anni, non sembra neppure la stessa persona di allora. Più disinvolto, scherza con la stampa, ama i giochi di parole che fanno sorridere.

«Smettetela di dire che sono il vincitore, mi piace essere qui e godermi il viaggio. Non sarei venuto se non avessi avuto il pezzo giusto, nato un giorno per caso». Un pezzo, Due vite, che aprirà il terzo capitolo dell'album Materia, dopo i precedenti Terra e Pelle. «Nulla era preventivato, poi il pezzo è arrivato e mi è venuto naturale presentarlo ad Ama». Pausa. «Deus ex Machina». E via a ridere.

Qui a Sanremo il Lido Mengoni – in realtà è il Circolo Canottieri - è il suo quartier generale, dove incontra la stampa, gli amici, beve un caffè e tutti i giorni si confronta con l'attore Fabio De Luigi. «È il mio caffè col limone della mattina. Diventerà un podcast».

Come ci si sente a essere il favorito fin dal primo giorno?

Mette pressione. Io non voglio pensare alla finale, ma a quello che è il percorso. Sembra banale ma giuro che è così. Mi voglio divertire. Spero di portare, dopo gli anni difficili del Covid, un po' di spettacolo. Se vinco bene, se non vinco davvero va bene lo stesso.

L'album Materia è una trilogia. Hai pubblicato Terra e Pelle. Quando arriverà il terzo?

Credo di esserci vicino, ho bisogno ancora di qualche tempo. Di sicuro prima del tour negli stadi, che parte il 17 giugno da Bibione e termina a Milano l'8 luglio a San Siro. Per me è già una festa averlo iniziato, Due vite apre l'album nuovo.

Com'è nato questo testo?

Durante l'inizio della sessione di scrittura per la terza parte di Materia. È una condivisione di ciò che ho vissuto negli ultimi anni. Anche se all'interno ha un'apocalisse lunare, qualcosa di lontano, notturno.

Poco fa, scherzando e parlando di te, hai detto «la mia storia infinita». A cosa ti riferivi?

A un lungo lavoro di analisi che sto facendo con me stesso, un lavoro infinito appunto. Perché non ci si scopre mai. Si vive sempre in contrasto. Come accade coi miei sogni.

L'inconscio mi trasmette delle verità che la vita fenomenica non mi dà, e quindi trovo le risposte nella notte. Risposte che la ratio non riesce a darmi.

O non vuole darmi perché il nostro cervello è fatto per salvaguardare. Per non farci soffrire del tutto. Due vite è un parallelismo, la vita che vivi tutti i giorni e il contrasto del mondo di Morfeo. Che è sempre pungente.

E quando i sogni non te li ricordi come fai?

Significa che sta succedendo qualcosa che io non vedo. Vado avanti nonostante tutto. Ma quei sogni portano la parte razionale di me verso qualcosa che sta accadendo, e mi fa riflettere. È la mia mente che non vuole farmi vedere.

Dopo dieci anni dalla tua vittoria a Sanremo nel 2013, con L'essenziale, che cosa hai imparato?

Mi auguro di sbagliare ancora, sono contento di aver sbagliato nella vita, e di aver capito tante cose. Gli schiaffi mi hanno insegnato tanto. A quasi 35 anni ho imparato che si possono buttare via dei momenti. Che poi non li butti via. I momenti di noia, che non amo, in verità sono quelli che stimolano la parte creativa. “Ci siamo fottuti ancora una notte davanti a un locale”, è una frase del testo ma che dico spesso anche agli amici. Siamo stati a parlare fino al mattino e magari sono morto di freddo, e avrei potuto usare questo tempo per dormire e riposare. Invece oggi mi dico: c'è tempo per farlo. È un pezzo che parla di speranza, un contrasto positivo, di discussione con se stessi che io vedo come crescita.

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È un bilancio personale?

Il bilancio chiude, invece qui non lo faccio perché è una discussione con sé stessi. Finché la vita c'è sarà così, si riflette e si cresce. Continuerò a farmi delle domande su di me. Il bilancio non ha aperture.

Torniamo agli schiaffi, da chi li hai presi?

Non so se dipende dal mio segno zodiacale, Capricorno, o dai miei geni ma io gli schiaffi più pesanti li ricevo soprattutto da me stesso. Quel Sanremo del 2013 è stato uno schiaffo fortissimo a me stesso. Mi ha svegliato da dubbi profondi che avevo in quel momento, temevo di non essere adatto a questa carriera, stavo per lasciare tutto e tornare ad Architettura. Avrei cambiato la mia storia invece poi non è andata in quel modo. Ed è cambiato il corso della mia vita. Ma ero davvero  un soffio, dal lasciare tutto questo.

Ripercorri un attimo quel Sanremo del 2013?

Non mi aspettavo minimamente di vincere. Era un anno strano, il 2012 era stato pieno di cambiamenti nella mia vita manageriale (aveva iniziato a seguirlo Marta Donà, ancora al suo fianco, ndr). Ero molto giovane e nessuno credeva in noi. Ma questo, stranamente, mi ha aiutato a trovare la forza. Subito dopo la prima esibizione, quella della prima sera, ogni tanto qualcuno mi veniva vicino. Ma molti altri mi davano per finito. Io stavo pensando di tornare all'università, pensavo che la musica avrebbe sempre fatto parte della mia vita ma non sarebbe stato il mio mestiere. E invece mi sbagliavo.

Per la serata delle cover hai scelto una canzone in inglese, Let it be. Come mai?

È stata una scelta istintiva. Non è una canzone, è un inno ad andare avanti. Qualcosa di speciale. Testo e musica che tutti avrebbero voluto scrivere nella vita. Sono stato ancora più felice di cantare con il coro The Kingdom Choir, tredici persone per l'esattezza. La contaminazione nella musica afroamericana mi piace, ci sono cresciuto, mia madre ascoltava quel tipo di musica. Il blues mi è amico, mi rilassa e mi fa pensare bene.

Della lettera di Zelensky l'ultima sera del Festival che ne pensi?

Condividere una serata di musica con un messaggio di pace è in linea con quello che è il mio animo e modo di essere. Non ci vedo niente di negativo o oscuro in questa lettera.

Com'è stato lavorare col paroliere Davide Petrella?

Io sono laziale, molto passionale anche se all'apparenza sembro distaccato e freddo. Lui è partenopeo. Un romano e un partenopeo che lavorano insieme fanno scintille. Lui è un vulcano di idee, io freno, sono il suo opposto. Rimango col piombo sotto le suole delle scarpe, lui va avanti. Ho capito tante cose attraverso di lui, con lui è sempre una fase creativa importante, litighiamo ma ci amiamo.

Di calcio parlate?

No perché vincerebbe lui. Il Capricorno parla solo di cose che sa e di calcio non so molto pur venendo da una famiglia di romanisti. Quando parla di calcio con Giovanni Pallotti, il mio bassista, mi dileguo.

All'Eurovision ci pensi? Se vinci Sanremo sarai tu a volare a Liverpool.

Coi se e coi ma non si ragiona. È una frase che mi diceva sempre mia nonna e io vorrei andare avanti così. Pensare al qui e ora. Per Eurovision vedremo.

Sei più adulto e sicuro. Hai fatto un percorso in questi dieci anni per stare meglio?

A farsi tante domande si rischia di stare male. Bene, ma anche male. Mi reputo una persona curiosa e dedico un’ora, a volte anche due, a settimana ai miei pensieri con una terapista. Un percorso che dura da sette anni. Mi aiuta con la respirazione e la mindfulness.

Un lavoro così ti fa crescere. Ma ho imparato soprattutto sulla mia pelle che, dopo tutti questi anni, il vero cambiamento è dato da alcune esperienze di vita, soprattutto da quelle importanti e più forti. Però sto imparando a normalizzare tutto, come l'ansia e le emozioni di Sanremo.

Qual è la fase in cui scrivi meglio le canzoni?

La migliore per la creatività e scrittura si trova a cavallo tra il conscio e l'inconscio, quei venti minuti che passano prima di addormentarmi. È la fase in cui arrivano più idee. Quando me ne accorgo cerco di registrarle nelle note o con l'audio del telefono. Come provo a fare anche coi miei sogni. Ma non sempre ci riesco. Avendo da sempre il problema ad addormentarmi, se sta per accadere devo cogliere la palla al balzo. E sfruttare l'onda. Anche a rischio di perdere un'idea.

La sera prima di una finale che si fa?

La sera prima si prova, non sempre riuscendoci, a trovare un equilibrio. Per prima cosa comincerei a non esagerare coi drink.

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