Per coincidenza (ma forse Jung la chiamerebbe sincronicità) il giorno in cui Sarah Everard è stata uccisa io mi sono trasferita a pochi passi dal luogo del delitto, a pochi metri dal punto in cui è stata immortalata per l’ultima volta da una telecamera del parco Clapham Common – abiti colorati un po’ hippie, espressione concitata, un telefono all’orecchio. Era il 3 marzo e il cielo del sud di Londra era livido e opprimente. Per un’altra coincidenza, i suoi resti sono stati trovati una settimana dopo in un bosco in Kent nei pressi di Ashford, dove io vivevo prima di trasferirmi lì. Naturalmente questo non conta nulla – il mio ordinario dato biografico che si scontra con la tragedia di Sarah – ma mi ha subito catapultato in una specie di testimonianza interiore e geografica al suo dramma, in un sentimento molto personale di fronte alla sua tragedia. Ho immaginato quei campi sconfinati che ho amato, il verde luminoso dell’erba selvaggia, il modo in cui la luce in certi giorni annullava l’orizzonte in una specie di ologramma azzurro, e nella mia immaginazione è diventato il teatro della morte di Sarah.

Abbandonata

Tra le mascelle di volpe sbiancate dal sole, incastonate nella terra, e le ombre di lepri lontane, immaginavo Sarah abbandonata come una scarpa vecchia e tutte le piogge e la grandine che aveva subito prima del ritrovamento. Ma Sarah non è morta lì, nel silenzio del Kent, tra i cavalli e i villaggi da casa di bambola. Non è morta in un luogo che ancora conserva un’affettività rurale, un luogo in cui se ti sposi devi invitare tutto il villaggio, sconosciuti compresi. Nel Kent, la regione di cui il killer è originario, è giunto solo il suo corpo senza vita. Lei è morta a Clapham, dopo le ventuno. In strade tra le più illuminate di Londra, e affollatissime nonostante il coronavirus. Stava tornando a casa, a Brixton, dopo essere stata da un’amica a Battersea, quartiere eccentrico dominato da una centrale elettrica vittoriana in disuso.

Mentre esploravo la zona, uno dei quartieri più vivi del borgo di Lambeth, notavo i volantini disseminati sui pali. Un volto mite, gentile, aperto in una chiara fiducia verso il mondo. Aiutate vi prego la nostra cara amica Sarah Everard. È scomparsa. Indossava un impermeabile verde. Sarah è magra e ha 33 anni. Chiamate urgentemente la polizia. Il tono dei volantini di persone scomparse è sempre toccante, perché pur nell’allarme tecnico e stringato, nelle frasi progettate con studiata minuzia, si percepisce il sentimento incontrollato, la paura e l’affetto, persino la risoluzione fallace e disperata di non pensare al peggio. Avete visto la nostra amica? Era qui, poi non c’era più. Aveva 33 anni (come me) e faceva la direttrice di marketing. Era gentile, premurosa, affidabile, amorevole, dice la famiglia. Era bella. Aveva un impermeabile simile a una coda di sirena. Era qui e poi non più. Aiutatela.

La sparizione di qualcuno – l’enigma di un corpo che svanisce, senza ragione apparente, catturato per un attimo da una telecamera e poi introvabile –  turba l’inconscio in modo particolare. Ecco perché guardiamo ipnotizzati Chi l’ha visto. Nel mistero di chi sparisce perdiamo le coordinate della nostra identità, costruita culturalmente su un’idea di permanenza: dalla nascita alla morte non è pensabile un’interruzione del corpo, e l’interruzione dell’io la releghiamo al concetto di insanità mentale, di schizofrenia, dimenticando tutta la mistica e la filosofia che ha immaginato altre strade e altre possibili aggregazioni del sé (per primo il buddhismo: teorizza un io frammentato, che si organizza transitoriamente in un’illusione di identità, paragonabile a uno stormo di uccelli che creano la figura illusoria di un uccello enorme).

Così quel volto bello e speranzoso disseminato ovunque, l’aureola di capelli biondi e il lampo iridescente dell’impermeabile che facevano capolino tra gli Starbucks chiusi e i parchi ancora affollati, parevano un simbolo strano di qualcosa, l’elemento perturbante di un quartiere che nonostante i segni e le realtà della pandemia era ancora pieno di gente, come se niente fosse, pur nell’aspetto fantasmatico di file di negozi chiusi e vestiti in vetrina di parecchie stagioni fa.

Quando fa buio

Se un quartiere fosse un inconscio, Sarah sorridente sui pali era il rimosso, l’interrogativo allarmante su cosa può accadere a una donna sola, quando fa buio, persino alla luce omogenea di strade frequentate e sorvegliate. Persino, e soprattutto, se il lupo è travestito da chi ci dovrebbe tenere al sicuro: il killer era un poliziotto. E qui inizia il problema: nel cortocircuito tra un’idea di sicurezza e una realtà impensabile, rovesciata.

Sabato 13 marzo, pochi giorni dopo il ritrovamento della salma, una dichiarazione in particolare ha creato la furia assoluta: la polizia ha suggerito alle donne di Londra di stare attente se e quando escono nell’oscurità: un colpo basso ascrivibile al solito victim shaming che dalle minigonne all’alcool tenta sempre di spostare la responsabilità su chi subisce. Così, mentre la baronessa Jenny Jones di Moulescoomb invocava scherzosamente un coprifuoco maschile alle diciotto, e su Twitter impazzavano sacrosante testimonianze di donne sui rituali di ritorno al buio che ben conosciamo, dalle chiavi in mano alla telefonata finta, un poliziotto del Parliamentary and diplomatic protection command, il ramo operativo che si occupa di protezione (alla sede del parlamento e delle residenze diplomatiche a Londra), veniva arrestato (e poco dopo si fracassava la testa nella cella). Il paradosso è scoppiato ovunque, fisicamente e sul web. Il paradosso di chi simboleggia la protezione e, sfruttando il suo ruolo, ha fatto sentire protetta una ragazza mentre la privava della sua vita. Così, a Clapham Common, il teatro oscuro dell’ultimo attimo di vita, si pianificava una veglia per Sarah.

Contemporaneamente, l’8 marzo, come ogni anno, il membro del parlamento Jess Philips ha letto a voce alta l’elenco di donne uccise da uomini nei 12 mesi precedenti. «Le donne morte sono una cosa che abbiamo semplicemente accettato come parte delle nostre vite», ha commentato. Ma non si trattava solo dell’ennesimo vergognoso femminicidio: l’omicidio di Sarah Everdard nel mezzo dell’ennesimo lockdown toccava un nervo scoperto della geografia psicofisica della pandemia: toccava quelle strade che restrizioni e virus avevano reso l’unico spazio sicuro al di fuori delle case (che sono, a un certo punto, soffocanti). Tra negozi e ristoranti chiusi, infatti, i londinesi si riversano sulle strade infinite e labirintiche della città. Strade in cui solo la polizia può sindacare su cosa sia lecito fare, dove sia lecito andare, finché l’emergenza è in corso.

Il 13 marzo, alle londinesi armate di uno striscione che diceva «riprendiamoci queste strade» è stata negata la collaborazione della polizia (questo dopo quasi un anno di ambiguità legislativa in cui è capitato persino che venissero multate persone che bevevano tè per strada): non è compatibile con le restrizioni, è stato loro detto, e il giudice non ha preso una posizione. Ma che celebrare una vita troncata brutalmente, pensarla e onorarla, piangerla, non sia compatibile con qualcosa è incompatibile con qualunque decenza etica. Così sabato 13 marzo la veglia, o sommossa, nel parco dietro casa mia, è scoppiata con l’intensità che meritava. Urla, vetri rotti. Una donna dai capelli rossi di nome Patsy Stevenson, ora ovunque su internet con un’espressione stoica e le braccia bloccate da un poliziotto, ha ricevuto una multa di 200 sterline. A pochi passi dalle caffetterie aperte per il take away e dalle file chilometriche al supermercato Sainsbury’s, il parco era pieno di dolore e di donne che si rifiutavano giustamente di mantenere l’ordine. «Uomini, fate meglio di così, proteggeteci», diceva uno striscione. Nel punto dell’ultima apparizione c’è un gazebo rosso che mi ricorda un parco della mia infanzia, ora quel punto è sommerso di fiori.

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