Per non battere la fiacca in questa estate rovente, niente di meglio di un feroce film scacciapensieri ad alto tasso di emoglobina. Soprattutto quando gli ingredienti sono il blu elettrico dell’oceano Pacifico, corpi perfetti da sbranare, squali infuriati e un serial killer bisteccone, drogato dei propri snuff movies (straordinario Jai Courtney). Scavalcando la palude degli shark movie di serie B, il film si rivela un sadico thriller psicologico a tratti femminista ed ecologista.

Selezionato dalla prestigiosa Quinzaine des cinéastes all’ultimo Festival di Cannes, Dangerous Animals dell’australiano Sean Byrne conferma il talento di un regista che aveva già sorpreso gli amanti dell’horror con due film diventati ormai classici del genere (The Loved Ones e The Devil’s Candy). Un incubo marino al sangue da gustare al cinema dal 20 agosto con Midnight Factory e Blue Swan Entertainment.

Perché ci ha messo così tanto a fare un film dopo The Devil's Candy e perché ha scelto di tornare con un film che sulla carta è così commerciale?

Voglio essere commerciale. Sono influenzato da Jerry Bruckheimer tanto quanto lo sono da David Lynch. In realtà non ho mai smesso di scrivere dopo The Devil's Candy e la maggioranza dei miei copioni sono stati opzionati da diverse case di produzione, ma la triste realtà è che oggi non è facile finanziare degli horror originali che non siano i soliti prequel o sequel. Poi è arrivato sulla mia scrivania Dangerous Animals e sono rimasto subito colpito dalla combinazione tra il genere film di squali e quello sui serial killer. Era una storia che aveva il potenziale per catturare entrambi gli amanti di questi due sottogeneri popolari, e trovavo anche innovativo il tema della salvaguardia degli squali, una razza in estinzione molto meno spietata dell’uomo, che in realtà è il vero mostro. Lo Squalo non ha reso loro giustizia, e dall’uscita del capolavoro di Steven Spielberg gli squali vengono sempre raccontati al cinema come assassini assetati di sangue umano. Nel mio film Tucker, il serial killer, è convinto di riprodurre sulla terraferma ciò che lo squalo fa sott’acqua, ma in realtà la sua è una filosofia distorta, nata dalla sete di sangue di un sociopatico. La maggior parte dei serial killer non uccide le proprie vittime, ma uccide la propria madre, il proprio passato, chiunque sia la fonte di quel dolore che non sono mai riusciti a superare. Il film mi ha anche permesso con questo personaggio di esplorare la natura estrema dell'uomo, la sua mancanza di empatia e le maschere che indossa per attirare e catturare le sue vittime.

Quanto è importante ricordare al pubblico che l’uomo è l’essere umano più pericoloso?

La storia ce lo insegna dalla notte dei tempi, in confronto gli squali non sono un vero pericolo, uccidono meno di 10 esseri umani all'anno, e se ci attaccano è perché spesso ci scambiano per una preda naturale come la foca. Facciamo molto più male allo squalo di quanto lo faccia a noi, e se c'è stato un aumento di incidenti è perché le aziende di immersioni in gabbia si addentrano in acque pericolose per garantire ai turisti la presenza degli squali, i quali vivono l’arrivo di queste barche come una minaccia per il loro territorio e i loro piccoli. Era ora di correggere il mito del cattivo squalo predatore, il vero lato oscuro appartiene all’uomo, basta ricordare gli orrori di cui è capace.

Perché il pubblico continua ad essere così affascinato dai film horror, soprattutto in un periodo così buio della nostra storia?

Credo che l'horror tenda a riflettere il momento storico, sociale e politico di un’epoca, se pensiamo ai tempi del Vietnam, dei film crudi come L'Ultima casa a sinistra, Le colline hanno gli occhi di Wes Craven o Non aprite quella porta di Tobe Hooper incarnavano perfettamente quegli anni. Oggi il mondo sta attraversando un periodo di grande crisi economica, ci sono diverse guerre in atto, c’è stata la pandemia e penso che quando la vita si fa dura hai voglia di vedere un film horror che ti spaventi al punto che quando esci dalla sala pensi: “Ah, in fondo le cose non vanno poi così male”. L’horror sta attualmente vivendo un momento d’oro, c’è un ritorno al genere slasher grazie al successo della serie Terrifier di Damien Leone, ma ci sono anche opere di autori come Jordan Peele, Ari Aster e Robert Eggers che vengono prodotti da società come A24, Neon e IFC. Sono film che dietro alla facciata del genere nascondono, come in un cavallo di troia, messaggi politici e sociali di grande attualità. È un momento davvero interessante che ricorda gli anni '70, l'epoca d'oro dell’horror in cui uscivano capolavori come Rosemary's Baby, L’esorcista o Il presagio.

Un aspetto interessante del film è l’esibizionismo del serial killer che immortala con una telecamera VHS le sue mattanze e costringe le sue prossime vittime a guardare. È una frecciatina contro il voyeurismo dello spettatore sempre più assetato di true crime e di immagini violente? In fondo anche andare a vedere il suo film può essere visto come una forma di voyeurismo perverso…

È una questione moralmente complicata a cui ammetto di non saper rispondere, altrimenti non farei il regista di film horror. Quel che è certo è che i racconti di paura intorno a un fuoco esistono da sempre. Credo che alle persone piaccia provare paura e vivere indirettamente altre esperienze in un luogo sicuro come il cinema. Nel caso del mio serial killer, le cassette VHS con i suoi omicidi sono dei trofei, vuole catturare l’istante tra la vita e la morte delle sue vittime su un supporto analogico irrintracciabile per poterlo rivivere nel tempo. Penso anche che Tucker ami il pubblico, è stato aggredito da uno squalo da bambino e immagino che questa storia lo abbia fatto amare dagli altri per un po’ di tempo.

Quali sono i film che l’hanno cambiata da bambino e che le hanno dato voglia di fare cinema?

Ho visto più volte Lo Squalo di Spielberg che rimane un mix perfetto tra costruzione narrativa, suspense e personaggi. Mi colpì molto anche un piccolo horror psicologico e minimalista come Chi c’è in fondo a quella scala (Sandor Stern 1988). Sono un grande fan di David Lynch e amo usare l'espressionismo nei miei film per sottolineare visivamente e acusticamente il senso di estraniamento dei miei personaggi, in questo film l’ho usato per rendere surreali i momenti di insonnia o di dissanguamento. Amo molto il cinema d'azione degli anni '80 e '90, quindi film come Die Hard e Speed. Henry pioggia di sangue (John McNaughton, 1986) mi fece entrare nella testa di un serial killer sociopatico senza un briciolo di empatia per le sue vittime. E amando molto i film sui serial killer, su cui ho fatto parecchie ricerche, non posso non citare il guardone Tom in L’occhio che uccide (Michael Powell, 1960).

Qualche regista italiano che l’ha colpita?

Ho un’enorme lacuna sul cinema Italiano, ovviamente il primo film che mi viene in mente è Suspiria (Dario Argento 1977) di un’audacia incredibile, anche nella tavolozza allucinata dei colori.

Non le piacerebbe cambiare genere? Perché è così ossessionato dall'horror?

L'horror è il dramma all’ennesima potenza, perché esiste tra il momento della vita e quello della morte, e per me la posta in gioco non può essere più alta di così. Non so lei, ma se qualcuno mi strangola o mi punta una pistola alla testa, quello sarà il momento più drammatico della mia vita, la vera sfida è quella di creare dei personaggi che interessino davvero il pubblico. Penso che l’horror debba essere più intenso di qualsiasi altro genere, quindi ben venga se è contaminato con scene d’azione o con una storia d’amore come in questo film. Certo sono ben lontano dal realismo sociale, il mio film è un'esperienza, ed è intensa, ma non è un calvario. È divertente e a tratti esagerato, come lo può essere un film dei fratelli Coen o di Tarantino. Sono i primi 5 minuti di film a conquistare il pubblico e devi rimanere fedele al mondo che stai raccontando. L’importante è la credibilità, anche se fai un film di fantascienza, l’unica cosa che conta è la famosa sospensione dell’incredulità.

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