Determinata, nera e queer: per avere l’immagine dell’eroina contemporanea basta fare un giro tra le serie, che negli ultimi dieci anni ne hanno ridisegnato la rappresentazione passando dal mondo bianco ed eterosessuale di Gossip girl a quello più realistico di Sex education, con buona pace della biondissima Serena Van Der Woodsen, che oggi probabilmente avrebbe il volto dell’attrice e attivista Amandla Stenberg piuttosto che quello di Blake Lively.

Un esempio è High fidelity, tratta dal romanzo di Nick Hornby, dove Rob – che nell’omonimo film è interpretato da John Cusack – ha il volto di Zoe Kravitz.

Esattamente vent’anni dopo l’uscita del lungometraggio di Stephen Frears la scelta è quella di rivedere il microcosmo della storia in chiave inclusiva, dando il ruolo di protagonista a una donna, nera, che racconta delle sue storie d’amore fallite tra ex fidanzati ed ex fidanzate e ha una cerchia di amiche e amici bianchi, neri, gay ed etero.

Lontano da Beverly Hills

Si esce da uno stereotipo per crearne un altro? Probabile. Ricordiamoci che si tratta pur sempre di personaggi cinematografici. L’aspetto interessante, però, è che una rappresentazione più realistica – che non significa reale – della società in cui viviamo permette a più persone di ritrovarsi e vedersi raccontate, diventando (finalmente) parte di una narrazione collettiva.

Un bel passo avanti rispetto agli anni Novanta quando con Beverly Hills 90210 la domanda intellettualmente più alta che ti potevi porre era se eri nel team Brenda o Kelly, e solo se eri bianca perché chiaramente per una ragazza appartenente alle Bame – black, asian and minority ethnic – la questione era «perché io non ci sono?».

Lo ha detto anche Viola Davis, nel 2015, nel suo discorso per la vittoria dell’Emmy Awards come migliore attrice protagonista in una serie drammatica con How to get away from murder – prima volta per un’attrice nera – citando l’attivista afroamericana Harriet Tubman: «L’unica cosa che separa le donne nere da chiunque altro sono le opportunità. Non si può vincere un Emmy per ruoli che semplicemente non esistono».

Universo Shondaland

Non è un caso che Viola Davis abbia vinto un Emmy come interprete in un prodotto di Shonda Rhimes, sceneggiatrice e produttrice televisiva statunitense, afrodiscendente e donna, ideatrice di alcune delle serie più famose e longeve – da Grey’s Anatomy a Scandal fino ai recenti Bridgerton e Inventing Anna – che dell’inclusività ha fatto il suo punto di forza.

Da fan di Grey’s Anatomy – lo ammetto candidamente: è il mio piacere proibito – non potrei immaginare una dottoressa Miranda Bailey con un volto diverso da quello di Chandra Wilson, nonostante il personaggio sia stato inizialmente pensato per una donna bianca. Poi è arrivata lei e al provino ha sbaragliato tutto, diventando uno dei punti di riferimento dello show.

Non binari

Attrici nere che interpretano ruoli pensati per donne bianche, aprendo così alla valorizzazione delle qualità professionali e non (solo) del background culturale che ci si vuole costruire sopra.

Del resto, l’attenzione alla rappresentanza delle Bame e dei generi è sempre stata a livelli altissimi: nelle ultime puntate è arrivato un personaggio non binario, interpretato da E.R. Fightmaster.

Un precedente è quello di Sex Education che nella terza stagione inserisce nel cast Dua Saleh che interpreta Cal, persona nera e non binaria che pone alcuni temi di forte attualità, tra cui quello della divisione dei bagni, nelle scuole, in maschi e femmine e delle difficoltà che ne derivano per chi non si riconosce nei due generi.

Titolino

La scelta di far interpretare personaggi non binari ad attori che ne condividono l’identità di genere è una presa di posizione chiaramente più politica che di opportunità, un segnale che l’inclusività deve riguardare i personaggi, il cast e perfino lo staff che scrive e produce la serie.

Un tentativo di modificare la lente di persone bianche, eterosessuali e cisgender con la quale troppo spesso si interpretano storie e personaggi, e che rappresenta – ora forse un po’ meno – il target di pubblico di riferimento. Netflix sta facendo un importante lavoro e i dati sullo staff che si trovano sul portale business confermano l’impegno verso una maggiore rappresentanza culturale e dei generi. La strada è ancora lunga e tortuosa ma qualche passo avanti, indubbiamente, si sta facendo.

What if

Come sarebbe la società di oggi se nel periodo della reggenza inglese, più o meno tra il 1810 e il 1820, la regina Charlotte avesse elevato la comunità nera accogliendola a corte, realizzando un’integrazione che avrebbe avuto un impatto sul corso della storia?

La risposta la troviamo in Bridgerton, da poco uscita con la sua seconda stagione, dove grazie a questa revisione storica ci viene mostrata una società dove il razzismo non è presente: nella prima stagione Daphne, prima della numerosa famiglia Bridgerton a debuttare in società, si innamora e sposa il duca di Hastings interpretato da Regè-Jean Page mentre nella seconda stagione è il fratello maggiore, Antonhy, a innamorarsi di Kate Sharma, che ha il volto di Simone Ashley, che conosciamo anche come Olivia del gruppetto più stiloso di Sex Education.

Kate è di origini indiane, determinata, forte, poco propensa a sottomettersi a un sistema patriarcale che la vorrebbe moglie devota. Spoiler: praticamente nessuna delle protagoniste femminili della serie si vede così e in questa stagione le riflessioni che emergono ci ricordano felicemente le Piccole Donne di Greta Gerwig.

Il cambio di rotta

Un altro esempio di What if me lo fa notare Antonella Capalbi, ricercatrice dell’università di Modena e Reggio Emilia, la cui analisi di Hollywood di Ryan Murphy si pone la domanda «Se il mondo del cinema fosse stato da sempre più inclusivo, la società contemporanea sarebbe diversa?» suggerendo che la risposta sia decisamente un sì.

Nella serie, che lo stesso regista definisce una faction, metà fatti e metà fiction, si raccontano le vicende della Hollywood anni Quaranta attraverso il punto di vista dei personaggio tradizionalmente secondari perché donne, appartenenti alle famose Bame o alla comunità Lgbt e che qui trovano la possibilità di un riscatto, immaginato e immaginario, ma che offre spunti di riflessione importanti sull’impatto che la rappresentanza sullo schermo può avere sulla vita reale delle persone.

Oggi i ruoli da protagonista femminile, nel cinema, sono circa il 30 per cento e negli ultimi anni il numero di attrici nere che li ha interpretati è quadruplicato, superando il 20 per cento.

Non sono dati entusiasmanti, certo, ma segnano un cambio di rotta importante che (speriamo) presto potrà interessare tutte le attrici appartenenti alle Bame e alla comunità Lgbt. Come dicevamo, la strada è lunga e magari saranno le ragazze e i ragazzi che oggi guardano serie più inclusive (e le bambine e bambini che vedono cartoni Disney dove la protagonista non è una principessa bianca e finalmente si salva da sola) a dirci, in un futuro non troppo lontano, se le cose saranno davvero cambiate.

La lente del privilegio bianco

Marina Pierri, nel suo saggio Eroine (ed. Tlon), definisce le protagoniste delle serie tv come donne che riescono a liberarsi dai condizionamenti patriarcali e sbocciare a se stesse. Autodeterminandosi, riescono a superare una serie di ostacoli che sono oggettivamente diversi da quelli incontrati dagli uomini. Lo sono per motivi di cultura e privilegio, non di biologia.

Una definizione che ci vede rappresentate come donne, a prescindere dal colore della pelle o dal background culturale e familiare di origine e che ci fa immedesimare con alcune delle protagoniste, interpretate da attrici nere, delle serie più recenti: da Samantha White di Dear white people, che ha il volto di Logan Browning o la Nola Darling di She’s gotta have it di Spike Lee, che fa il remake del suo stesso film scegliendo come protagonista DeWanda Wise.

In entrambi i casi si tratta di due donne nere, determinate, impegnate e decise a prendersi la propria libertà superando un certo numero di ostacoli, dovuti alla propria condizione di donna, afrodiscendente e, nel caso di Nola Darling, pansessuale (oltre a quelli che la vita ci mette davanti a prescindere dal genere e dal colore della pelle).

Ho snocciolato questa lista durante un incontro con alcune attiviste di Blake Lives Matter che mi hanno risposto, senza mezzi termini, che si tratta di rappresentazioni disegnate sull’immaginario bianco, facendo traballare la poltrona sulla quale ero seduta, evidentemente foderata dal mio privilegio.

Tra le criticità sollevate, al primo posto, c’è il colore della pelle: quella di Zoe Kravitz e Logan Browning è troppo chiara e quindi diventa difficile, per chi ha la pelle nera, sentirsi rappresentata pienamente.

Un concetto molto diverso dal potersi identificare con l’anima di un personaggio, cosa che non richiede nessuna particolare caratteristica fisica.

Ho chiesto cosa consigliano di vedere e loro, senza indugio, hanno decretato When they see us di Ava DuVernay (mini serie bellissima, tratta da una storia vera di pregiudizio e discriminazione razziale) e il film Marvel Black Panther di Ryan Coogler.

Entrambi sono diretti da afrodiscendenti, dettaglio che evidentemente ha un peso sia sulla costruzione della storia sia sulla scelta del cast. «Sogniamo di vedere più Lupita Nyong’o» mi ha detto Uwaila Osawaru, una delle attiviste Blm presenti, chiudendo la conversazione. Riguardando Black panther ho capito il perché: regina assoluta.

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