Dopo decenni di arbitrarie categorizzazioni e sottogruppi entro cui le donne sono state puntualmente divise e spartite – la it girl, la bad girl, la sad girl, il Barbie core, il cottage core, la modalità goblin – pare che anche gli uomini adesso rispondano di un’estetica: volta apparentemente a confinarli, a limitarli entro precisi codici decorativi, ideali. Lo ha fatto presente il New York Times in un recente articolo dal titolo «They’re Gentle. They’re Seasonal. They’re Soft Boy Cooks». A quanto sembra, accanto al canone dominante della virilità tradizionale, un modello maschile più tenue, gentile, dai contorni sfocati si muove all’ombra dei social media. Producendo contenuti sufficientemente appetibili da risalire la corrente dell’algoritmo e ottenendo a pieno diritto lo stato di topos narrativo e comportamentale.

La nuova estetica maschile

Ma chi sono i Soft Boy Cooks? Sono alti, affusolati, in forma, ma non muscolosi – a differenza del loro corrispettivo antitetico che ai muscoli e alla stazza affidavano il surrogato della propria idea di mascolinità. Amano gli ortaggi. Li dispongono con cura in pentole e padelle – e non bruscamente, a casaccio: anche la gestualità prevede un atteggiamento mentale.

Incarnano, insomma, una nuova avanguardia di genere: al posto di una bistecca sanguinolenta, preferiscono un piatto di broccoli al vapore, che al cuoco Pierce Abernathy – modello oltre che cuoco perché, senza nulla togliere alle abitudini alimentari, è sempre e ancora la bellezza a rendersi un capitale in crescita costante sugli schermi di tutte le generazioni – ricorda la cucina della madre, il modo che aveva di mescolare gli ingredienti, semplice, privo di pretese. Una madeleine proustianamente sempre valida.

Come in quella scena del film Ratatouille dove il critico gastronomico più spietato di Parigi torna con la memoria alla triste cucina della sua infanzia, alle verdure che sua madre scaldava sul fuoco, al sapore di intimità che racchiudevano e capaci di generare, dopo anni di distanza, un valore affettivo pressoché intatto. Ecco, l’evoluzione dialettica è la stessa, ma al posto di crescere uomini algidi, ingobbiti e ricurvi, favoriscono l’iniziatica corsa al successo di maschi capaci, sensibili e politicamente corretti.

Mascolinità, cibo e identità

Sono dunque lontani i tempi dei bicipiti scolpiti, dell’ossessione per lo sport e la forma fisica? No, anzi, non ancora. Su Instagram e su TikTok c’è temporaneamente posto per tutti, rappresentano il luogo della continua riproducibilità virtuale; rispondono a ciascuna piega identitaria, perfino in anticipo rispetto alle considerazioni individuali. Tradotto: se ancora non sai chi sei, Instagram è un ottimo mezzo per scoprirlo.

La ripetizione e la moltiplicazione di immagini riguardanti il cibo vedono ancora uomini – e donne – intrappolati nel paradigma ideologico della prestazione: i prodotti animali servono ad aumentare la pressione del corpo, a favorire la concentrazione, gli sforzi muscolari e anche, dicono, il testosterone. Rimettono in circolo le energie sessuali. Visto che di dominio delle immagini stiamo parlando, bisogna aggiungere che l’abbigliamento conseguente è quasi sempre composto da un cappellino con la visiera, da costumi dai colori fluorescenti e da tanti, molti tatuaggi. La costruzione dell’archetipo è presto servita. Quella del Soft Boy Cooks è ancora in divenire, ma possiamo già desumere, dagli elementi oggi in circolazione, che si tratta di un profilo più basso, più evanescente e longilineo. Capelli? Lunghi; appena spioventi sul viso.

L’ossessione culinaria è la caratteristica che attraversa e unisce entrambe queste classi maschili, quasi che gli uomini stiano ridefinendosi semanticamente a partire dal cibo. O forse, il cibo è diventato un contenitore talmente vasto e potenzialmente infinito che si presta a qualunque uso. Quasi tutti i principi esistenziali su cui un tempo si fondava la vita degli individui stanno progressivamente venendo meno, mentre la cultura del cibo gode di ottima salute, almeno nei paesi occidentali: rappresenta abbondanza, la cosiddetta «abbondanza perenne» teorizzata dal filosofo Jean Baudrillard, uno dei più pervicaci miti dell’età moderna: consiste cioè in una credenza collettiva, in un abbaglio che muove intere popolazioni e si basa su fondamenti mistici, religiosi, allo stesso modo di quando, scrive Baudrillard, le tribù amazzoniche vedevano gli elicotteri dei coloni alzarsi in volo e ritenevano d’aver intravisto il grande uccello della fortuna decollare come per incanto dalla terra.

L’abbondanza perenne e l’illusione del benessere

Apparentemente reperibile in ogni luogo, accessibile a tutti, distribuito in grandi quantità, svenduto a prezzi bassissimi, oppure ammantato di vanterie, di esclusività, tanto da assumere su di sé il coefficiente di benessere materiale di cui gode ciascuno di noi: il mondo oggi è di chi mangia, diceva un vecchio motto. Il semplice atto di nutrirsi, di saziarsi – ma davvero è mai stato semplice? – è spesso la sola reazione compensatoria rimasta in un universo sempre più in crisi.

Privarsene fino a deperire, servirsene fino a scoppiare, o riconcepirlo in chiave identitaria, di costruzione del sé: ecco qual è l’asse su cui rischia di oscillare il nostro attuale, fragile processo di individuazione. E gli uomini, partecipi del disorientamento generale quanto, come e più delle donne, cedono al canto da sirena dei social media che, alla stregua di grandi magazzini moderni, propongono continui costumi, continue maschere, continui travestimenti: facilmente identificabili e fortemente caratterizzati. Nulla di nuovo sotto al sole; nulla di rassicurante in queste immagini di maschi ai fornelli.


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