Ci sono testi, nella cultura, che vivono come nuclei di vita organica: vivono un loro primo ciclo di vite, e poi ne generano tanti altri, alcuni più lunghi, altri più brevi, altri a loro volta produttivi di nuovi cicli. Così i testi originali restano vivi, tornando e cambiando.

Il nome della rosa di Umberto Eco è certamente uno di questi testi originari: origine di altre vite. Dopo il successo fuori dal comune del romanzo, abbiamo visto già come sia rivissuto con tante altre vite – al cinema, in tv, nelle graphic novel, nei videogiochi, a teatro – ma ora di vite ne è arrivata un’altra, che da quelle precedenti trae linfa eppure è un’impresa del tutto singolare: l’opera lirica. È stata presentata domenica 27 aprile in prima assoluta a La Scala, con musiche di Francesco Filidei (che ha scritto anche il libretto, con Stefano Busellato e la collaborazione di Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti), regia di Damiano Michieletto, direzione di Ingo Metzmaker.

Storia di Adso

È un Nome della rosa diverso e fedelissimo, questo di Filidei e Michieletto.

Anzitutto è la storia di Adso, laddove i film tratti dal romanzo ci hanno soprattutto abituato alla storia di Guglielmo (considerato anche il primo piano degli attori che lo interpretavano: l’indimenticabile Sean Connery e l’altrettanto straordinario John Turturro). In quest’opera, invece, vediamo soprattutto il viaggio di scoperta e formazione di Adso: gli incanti, gli orrori, le bassezze, le follie che il mondo gli propone.

Lo stupore di Adso (interpretato en travesti da Kate Lindsey) è stupore anzitutto visivo, che trova nelle scelte scenografiche di Michieletto una pienezza che investe anche lo spettatore: lo stupore dell’Apocalisse (in una potentissima animazione di un bassorilievo del portale della basilica di Moissac), lo stupore dei corpi morti, visti forse per la prima volta (e portati al centro della scena dentro teche che presentano il monaco defunto in un fermo immagine che è cinema, installazione, laboratorio), lo stupore delle miniature viste da vicino (con marginalia che prendono dimensioni enormi), lo stupore dell’intelligenza (nelle varie volte in cui Adso dice che non riesce a seguire i ragionamenti velocissimi di Guglielmo), lo stupore dell’ingiustizia, peraltro ecclesiale (quando da spettatore, prima incredulo e poi disperato assiste alle decisione di uccidere i colpevoli, giudicati tali per le vie sommarie dell’Inquisizione), lo stupore – soprattutto – della grazia femminile, che è divina e profana.

Su questo aspetto l’opera si distingue dal romanzo, accentuando più esplicitamente l’elemento erotico: la grazia femminile all’inizio è Madonna (una grande, enorme, Madonna in trono – quasi la Madonna di Ven Eick di Lucca – nelle cui braccia, al posto del Cristo, Adso si rannicchia, in un abbandono che è mistico, con ciò che di erotico questo comporta), poi si fa quasi un’Eva di Cranach, esile e sinuosa, i lunghi capelli rossi sciolti – un’Eva che poi si sdoppia, in un’Eva nuda, carnale, e un’Eva coperta da una veste rossa, casta e aggraziata. L’amore c’è dall’inizio alla fine – l’opera si apre e si chiude su questo – perché, in fondo, la crescita di Adso è soprattutto questa: di tante scoperte, questa la più dirompente.

In un duetto finale, poco prima del confronto con Jorge de Burgos, è evidente il diverso percorso di Guglielmo e Adso: Guglielmo si strugge per non aver capito, Adso si strugge per non aver salvato la sua Eva. L’avventura dell’uno era un’avventura di conoscenza; l’avventura dell’altro, un’avventura di esperienza.

A dare il senso di queste continue straordinarie scoperte che Adso fa, “la vertigine delle liste”, che tanto piacevano a Eco (come molto di ciò che ho menzionato fin qui: da Moissac a Cranach e Van Eick). Lunghissimo e lietissimo (quanto avrebbe invece potuto essere noioso…) l’arrivo nell’Herbarium, dove Gugliemo duetta a trovare l’autore di tutti i volumi che vengono menzionati, e sono tanti; numerosissimi i diavoli, in danze straordinarie e angoscianti come un Sabba, anche per lo spettatore in sala; quasi ipnotici e rasserenanti, come i punti di una geometria, i capi ripiegati dei monaci oranti del coro, in un disegno che (a partire dalla straordinaria scena di inizio) sembra, su due registri, rappresentare la ripetizione dell’identico: impersonale, ordinato, pulito, bellissimo.

Un multilinguismo radicale 

Ad accompagnare stupori, tremori, orrori e incanti, una orchestrazione che dà ampio spazio alle percussioni e ai ritmi (del resto, la vita monastica è una vita ritmata, in cui le ore sono battiti). Il senso della battuta ritmica è fortissimo, sia nella musica che nei recitativi, mentre si alternano ben distinguibili bassi ostinati e aerei suoni di uccelli, insieme a tutta una gamma di variazioni e percussioni foniche che appartengono al mondo dell’abbazia: stridii, fruscii, rumori… Il che sembra ancor più paradossale in un’opera in cui il testo è tanto cruciale (e in cui la maestria degli autori ci è parsa eccezionale).

È come se a Filidei non bastasse il multilinguismo verbale (e tanti brani del parlato sono in latino, greco, arabo, tedesco, francese…), ma cercasse un multilinguismo radicale, inclusivo dei suoni delle altre presenze.

Così questo Nome della rosa attraversa i linguaggi e i generi (la citazionalità è chiara anche a chi riconosce, nel testo e nella musica, solo una minima percentuale di quel che viene riproposto e variato), scavalcando completamente i medievalismi dei film, nel momento stesso in cui esaspera alcuni elementi visivi del Medioevo; scavalcando la filologia del testo, nel momento in cui ne riproduce gli elementi chiave; scavalcando l’erudizione dell’opera, nel momento stesso in cui tutto è citazione colta, dal dettaglio figurativo a quello orchestrale a quello testuale, per offrire un’opera potente, che ti sopraffà, ti stupisce, ti incanta – come forse è nella natura popolare dell’opera lirica, anche oggi, anche negli anni 2000, anche con la colta musica contemporanea.

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