In Italia, dopo la carceraria scuola dell’obbligo, quasi nessuno è disposto a leggere di sua spontanea volontà. E Gelmo Letami è un editore di provincia costretto a vendere i libri a chi li ha scritti. Lo scrittore paga per leggersi e paga per essere la merce di sé stesso
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
Dopo anni di autolesionismo ortopedico e sociale il risultato più significativo che ottenevo come giovane aspirante scrittore era la proposta contrattuale di Caccamatta Edizioni, baracca editrice nata il giorno prima in provincia di Bergamo e specializzata in fantasy orobico, memorialistica vedovile, raccolte poetiche di curati.
La mail dimostrava le competenze linguistiche di un mutilato cerebrale, conteneva già il contratto capestro in pdf e da una lettura veloce mi era parso di capire che avrei dovuto acquistare circa cento copie delle centocinquanta stampate.
Anche se questi erano dei minorati estetici, gente più vicina al labrador che all’editore, in anni di scrittura io non avevo ottenuto nulla, mi ero solo scassato la postura e suicidato la giovinezza, perciò mi tappai il naso, sturai il culo per l’imminente inculata e chiamai.
L’editore
Chiaramente Gelmo Letami, l’editore, voleva solo i miei soldi perché al telefono parlava di tutto e mai del contratto, cercava di mettermi a mio agio, di truffarmi in amicizia. L’editoria era impresa certo, ma lui ci metteva il cuore, addirittura l’anima, non dovevo preoccuparmi, era un autore come me e tra colleghi ci saremmo sicuramente trovati.
Mentre il Letami si pubblicizzava per conto suo andai un po’ a ficcanasare su Google Maps e risultò che la sede legale della casa editrice era una casa, una casa di paese, e dalle immagini aveva l’aria di essere la villetta con giardino dei genitori dell’editore, giovane semidisoccupato in carriera, come tutti.
Visto che la redazione era inesistente il Letami mi avrebbe raggiunto dove preferivo, il mio paese lui lo conosceva benissimo, eravamo praticamente decresciuti insieme e così fissammo un appuntamento al bar cinesizzato di fronte alla piscina comunale.
Nato stanco, sudatissimo da fermo, carnagione rosso glande, fisico esile e pancia alcolizzata, il trentenne Gelmo Letami era brutto dentro, brutto fuori e brutto ovunque. Aveva pochi capelli ma insisteva nel mettersi il gel, si vestiva sportivo anche se si sarebbe infartuato dopo mezzo gradino e all’appuntamento arrivò in scostumato anticipo su un’utilitaria decappottabile, che presumibilmente era riuscito a comprarsi perché deprezzata dal colore, un bel giallo cirrosi epatica.
Portava una cartelletta sotto l’ascella sudata e quella cartelletta era la casa editrice, una casa nomade, come il carapace della tartaruga o il cartone del clochard. Dentro teneva i contratti ridicoli e se ne andava su e giù per le analfabete valli bergamasche a farli firmare agli aspiranti autori.
Chiudeva tre o quattro contratti al mese e viveva così o meglio sopravviveva nella speranza di riuscire un giorno a viverci. Appurato che in Italia, dopo la carceraria scuola dell’obbligo, quasi nessuno era disposto a leggere di sua spontanea volontà, il Letami vendeva i libri a chi li aveva scritti, lo scrittore pagava per leggersi, pagava per essere la merce di se stesso.
Pubblicavano circa quaranta novità all’anno, ma stavano crescendo e come ogni pazzo che non si rispetti Gelmo Letami parlava al noi mussoliniano, al noi dell’Armiamoci e partite, ma molto probabilmente non c’era nessuno in redazione e non c’era nemmeno la redazione, la casa editrice era lui e basta.
Di formazione perito agrario i suoi compagni erano diventati neocontadini green o direttamente concime sociale. I suoi genitori però erano proprietari di una cartoleria e il Letami aveva pensato malissimo di venderla per passare alla carta scritta, quella difficile, culturale, perché da buon cattolico rimasto al medioevo aveva il complesso di inferiorità verso i libri, che ai suoi occhi erano tutte bibbie.
La casa editrice
Mi raccontò dei grandi successi provinciali della casa editrice, dei vari grafomani raggirati con la promessa della fama letteraria. Nell’ampio e sconosciutissimo catalogo, sorta di pollaio autoriale, c’erano finiti: preti poetoni, economisti giallisti, disabili immaginari e immaginifici, vecchiette autobiografe morte in tempo per l’autopromozione.
I libri erano ben distribuiti, ma solo nel raggio di cinquecento metri dall’abitazione del nuovo esordiente allucinatorio e dato che questa era gente montanara il libro arrivava al massimo in un’edicola o due. C’era soltanto l’illusione della celebrità, il revanchismo condominiale contro familiari e vicini.
Se uno voleva andare oltre il suo piccolo borgo, se voleva attraversare non dico il fiume ma almeno il fosso comunale, avrebbe dovuto farsi vucumprà letterario, svendersi alle sagre del fagiano, alle serate del liscio, sui marciapiedi e pure sulle strisce pedonali.
Dopo essere stato pollizzato dall’editore, allo scrittore ridicolo non restava altro che diventare a sua volta pollivendolo. Gli autori di Caccamatta Edizioni si prostituivano senza pudore e senza riscontro, se non di visibilità, visibilità che vedevano soltanto loro attraverso l’automicroscopio narcisistico dei social. Tiravano giù le mutande ovunque e con chiunque per sentirsi rispondere: «No, grazie, non siamo interessati. No, grazie, non è il nostro genere».
Sicuro del mio talento nel surplace alla cassa, dopo il secondo cappuccino in meno di dieci minuti ordinai anche un’ingiustificabile coppa gelato al gusto puffo, mentre il Letami, terminato l’imbonimento, apriva la sua cartelletta e mi mostrava la copia cartacea del contratto da impostore seriale.
Il contratto
Il documento era scritto nello stile tipografico del romanzaccio fantasy e prevedeva, oltre al diritto a non avere diritti, ben zero euro di anticipo e soprattutto l’obbligo d’acquisto della quasi totalità dei libri stampati. In sintesi era l’offerta sconveniente di una copisteria d’asporto.
Io gli spiegai subito che non avevo intenzione di pagare e che mi sarei addirittura aspettato il contrario, un compenso simbolico, duecento euro, buoni sconto sessuali. Gelmo Letami non capiva se fossi serio, buffone o matto e nel dubbio sudava suinamente.
Non riuscendo a inquadrarmi mi ridusse a se stesso, al suo pensiero bottegaio. Le mie parole dovevano essere solo un modo stravagante di chiedere lo sconto e allora si lanciò in un’asta al ribasso da fiera del bestiame zoppo. Rigirò il contratto dalla sua parte e con un gesto plateale, secondo lui risolutivo, cancellò a biro le cento copie e scrisse settantacinque.
«Mi dispiace, ma è lo stesso», dissi.
«Facciamo cinquanta?»
Mentre parlava il Letami non mi guardava mai, teneva gli occhi su un punto all’altezza del mio petto, un terzo capezzolo ideale che vedeva solo lui, ipnotizzandosi, e intanto contava per conto suo:
«Che ne dici di quarantanove?»
Quarantotto e chiudiamo?»
Sotto le quarantasette non posso scendere, non rientro nelle spese»
E se fossero quarantasei?»
Quarantacinque?»
Quarantaquattro e mezzo?».
La disperazione
Al termine del suo penoso spogliarello finanziario Gelmo Letami lanciò al vento la sua ultima offerta, venticinque copie. Questa volta alzò lo sguardo dal terzo capezzolo ideale, mi fissò con le pupille postumane del tossico che in stazione chiede i centesimi per la droga chiamandola biglietto ferroviario e aggiunse: «Sono disperato».
Abbandonando il lei immotivato a favore di un tu stessabarchista risposi:
«E secondo te io no? Al momento sto dai miei e prima ancora ero il cane sadomaso di due lesbiche».
Divulgavo le mie disfatte sessuali come nulla fosse, tanto nessuno mi avrebbe creduto. Secondo tutti stavo solo affabulando, coglionando a oltranza. Da buon bergamasco sessuofobico il Letami passò dal rosso glande al rosso cardinale, scosse la testa cava, disse a se stesso che se parlavo di genitalate in pubblico non ero affidabile, ero un farfallone, giocavo con la vita.
Non conoscevo l’editoria ma sapevo di saperne più del Letami e lo sapevo tramite intuito estetico. Così come non c’è bisogno di leggersi l’intero programma di un politico per sapere che certi baffi, certe pelate, certe stature minime portano solo al peggio, allo stesso modo io sapevo che non avrei mai potuto affidare i miei libri a un editore col gel sui capelli, soprattutto se i capelli poi non c’erano e lui faceva finta di niente.
Pur non essendo etica la letteratura obbedisce comunque a una singolarissima forma di etica, un’etica dell’estetica, e quel gel superfluo da quindicenne ammiratore emulativo dei divi calcistici era, senza contare il resto, la dimostrazione oggettiva della disabilità artistica di Gelmo Letami, cartolaro di provincia passato alla criminalità disorganizzata dell’editoria a pagamento.
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