L’agendina sta sul piano del tavolo, nella sua fodera di plastica verde marcio. Mi guarda come ti guardano gli oggetti in cui hai lasciato qualcosa di te.

È del ‘79. Una weekly planner: un’intera settimana a ogni apertura di pagina, ma esito ad aprirla. Anche se l’ho fatto un’infinità di volte, prima soprattutto con gli amici e ora quasi sempre da solo. So che appena lo farò mi pioverà addosso una legione di voci, da tutti i secoli e tutte le lingue, e che tutte quelle voci saranno la mia. Sarà come un giudizio. È un dono di mio padre. “Dono” forse è dire troppo: “Ti serve?”, mi aveva chiesto, e l’avevo accettata. Forse il regalo gliel’ho fatto io.

Sulla copertina si legge ancora l’intestazione bruno-dorata, vagamente sapienziale: Il Mondo. Doveva essere un omaggio per gli abbonati alla rivista. Non la storica rivista di Mario Pannunzio, ahimè, ma la sua nuova serie a tema strettamente economico.

Le prime pagine sono occupate dalla pubblicità dell’IBI, una banca coinvolta nelle vicende dei fondi neri della DC e del crack del Banco Ambrosiano. Dietro quegli omini disegnati, con il sorriso benevolo e gli occhi a pallino e la stanghetta degli occhiali appoggiata alla bocca (“la vostra banca: l’IBI!”), c’erano le ombre di altri omini dallo sguardo assente, responsabili di un gioco truccato che si portava dietro omicidi e stragi.

Ma per il quindicenne che ero quando l’ho ricevuta, quelli non erano gli anni di Pesenti e di Calvi, di Sindona e della P2. Erano ovviamente gli anni, i mesi, i giorni della prima liceo, della prima cotta, dei primi taccuini e diari e quaderni di poesie, a cui si aggregò l’agendina verde. Tutte cose che allora mi portavano a poco: la scuola era inesistenza, le ragazze fantasmi, le poesie assurde canzonette, e io mi sentivo ovviamente colpevolmente disperatamente solo.

Volevo riscrivere le parole degli scrittori

A una data qualsiasi, l’8 ottobre, scrissi: Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.

Quale diavolo di sorriso avevo in mente? Non certo quello della madre di Quasimodo (il verso era suo), ma un sorriso puramente, biecamente immaginario. Eppure provavo un piacere particolare nel riprodurre le parole dei grandi scrittori, quasi replicando i precisi movimenti delle loro dita lungo le aste e curve delle lettere. Un soffio di esaltazione narcisista; e anche un sentore di perdita dell’io, e perfino un dolce brivido horror.

Continuai a copiare qua e là delle frasi trovate in questo o quel libro. Sentivo che il mondo e l’umanità, così, mi entravano dentro. Mi sentivo meno solo. Se vuoi essere me sii me, se vuoi essere te stesso sii te stesso; se vuoi essere libero sii libero, tutto ciò che vuoi fare, puoi farlo. Sono un uomo: nulla di ciò che è umano mi è estraneo.

La mia è una vita fatta di tutte le vite: le vite del poeta. Cat Stevens, Terenzio, Neruda. E tantissimi altri. Mi orientavo d’istinto verso ciò che percepivo affine, come entrando in una stanza ci si volta verso uno specchio: perché è una fonte di luce, o lo sembra.

Capii di star componendo un autoritratto molto particolare – più moltiplicavo i volti, meno sapevo chi ero. Tanto meglio! A quell’età un ragazzo cerca di capirsi, ma il mio obiettivo, per un misto di entusiasmo e panico, era di non farmi incastrare in un’identità precisa. Il nuovo decennio mi aveva portato una imprevista volatilità. Volevo essere tutti. E non essere me. Strano narcisismo.

Non erano massime, erano vere voci

Mi immaginavo come David Bowie, Andrea Pazienza, Moebius, ma anche Rainer Maria Rilke o Ezra Pound. Viaggiavo in un me posto fuori di me: orbitavo sempre più fuori, aggiungendo nuove frasi: le rileggevo, le recitavo, ruotando in un teatro interplanetario di voci … Ecco, questo erano: non massime, ma vere e proprie voci, in cui si esprimeva l’essenza dell’autore, o di un suo personaggio… E in men che non si dica decisi come usare l’agendina. Ne parlai con il mio compagno di banco, Elio:

– Vedi? La apro a caso e scrivo una frase in un giorno. Non vado in ordine. Quando ne avrò messa una in ogni settimana, comincerò una seconda serie: una seconda frase per settimana, sempre in un giorno a caso. E così via, fino alla fine. L’unica regola è questa.

A Elio, libero dalle mie ossessioni, queste sembravano già un sacco di regole. – E la frase come la scegli? – È lei che sceglie me – (avevo appena imparato questa formuletta chic.) – Mi basta che descriva una persona, una psicologia… – Uno sguardo! – (Anche Elio provava le sue parole-chiave.) – Ecco, sì. Perché l’idea è che ognuno, dopo, può andare a cercare la data del suo compleanno, e trova una frase che, senti qua: misteriosamente lo descrive. – Ah! E al mio giorno cosa c’è scritto? – Vediamo… Ancora nulla. La sua delusione era palpabile. Mi sentii potente. – Se vuoi, ti cerco il compleanno di Elena. Quando è? – Dai: 21 dicembre. – Eccola. È una poesia di tre versi.

La letteratura era un repertorio integrale di umanità

“Il mondo”, disse la Sfinge, “è un’intricata finzione. C’è un filo o non c’è, per uscire dal labirinto?” “Certo che c’è,” rispose Edipo. “Ma è finto.”

Veniva da un romanzetto di fantascienza che ci eravamo passati. Elio se ne andò tutto soddisfatto, e io mi resi conto di avere tra le mani un tesoro. La letteratura era un repertorio integrale di umanità. Si poteva giocare con la sua capacità di rivelare un destino personale. E io potevo far giocare gli amici, calzandomi in testa il cappello a punta del mago. – Volete provare qualcosa di nuovo? Ditemi il vostro compleanno…

Così il Libro dei Giorni – gli diedi questo nome altisonante – diventò una briscola irrinunciabile. Alle feste degli anni Ottanta mi chiedevano di portarlo. Era il teatrino segreto della nostra cricca di amici. Tutti volevano sapere come si sarebbe pronunciata la sibilla. E io? Io impazzivo di gioia. Avevo bisogno degli altri; li temevo; mi occorreva un ruolo. Ecco allora la soluzione: vestire i panni della simpatica testa d’uovo, il Pierrot che condivide senza difficoltà una saggezza aspra o ironica o tenera presa in prestito da Pavese, o Svevo, o Dylan Thomas. E che cerca così di gestire anche le sue ansie erotiche, convinto che nessuno se ne accorga.

Mi spoglio per andare a letto e compiango il mio nudo, così giovanilmente bello e così solo. Credo però ch’egli sia il solo a questo mondo il quale sentendo che volevo andare a letto con due bellissime donne si domanda: vediamo perché costui vuole andare a letto con esse. Se mi portassero Venere su un piattino, chiederei dell’aceto per condirla.

Combino un bel casino per distruggere l’ordine

– Ma perché spargi le frasi a casaccio? – esclamò mio padre. Non a casaccio, pensai: a caso. Anzi: a casuccio, papà: vezzeggiativo. A casello. Io salto di casella in casella e combino, cosa? un bel casino, per distruggere il tuo senso dell’ordine. Il caso è il mio capogiro privato, la rotatoria che mi apre mille strade… Ma c’era anche una seconda ragione: il caso, come sa ogni cartomante, ha un cugino inflessibile: il destino.

Paradossale, ma è così. Mi spiego. Un giorno mi capitò tra le mani un romanzo per ragazzi, La pendola magica di John Bellairs. (Più tardi scoprii che era un piccolo classico, ma spesso la gioventù ha il privilegio di incontrare i grandi libri senza sapere che sono grandi: per caso.) Dunque, due amici devono sconfiggere un mago malvagio. Per farlo hanno bisogno di compiere un rito magico. Ma non va cercato in antichi manoscritti: occorre inventarlo, improvvisare alla cieca una sequenza di gesti e frasi! Il contrario di una liturgia. Eppure, nel romanzo, questo rituale effettivamente funziona: il mago ci lascia le penne.

Cultura

Gli anni

Le frasi erano a casaccio ma appropriate

Anche il Libro dei Giorni funzionava. Benché sparse a casaccio, anzi proprio perché sparse a casaccio, le frasi erano sempre perfettamente appropriate – o almeno così mi diceva il soggetto stesso. E posso aggiungere che Elio, che aveva letto un po’ di Jung, di queste coincidenze non si stupiva affatto. Il che mi spianava la coscienza.

Continuai a riempire lentamente le pagine negli anni del liceo, e poi all’università. Le mie letture cambiavano. Ora trascrivevo autori considerati più difficili, Tabucchi, Landolfi (il suo A caso), Manganelli. Un giorno inserii una frase di Savinio: L’ignoranza era in lui una forma di felicità. Poi guardai in cima alla pagina. Era il compleanno di mio padre.

Pensai agli omini sorridenti nelle pubblicità dell’IBI, ignari della P2. Come interpretare quella frase? Forse era un atto d’omaggio alla sua condizione – che non possedevo, e non capivo – di uomo felice. Era perfida e perfetta per amarlo e ferirlo, per distinguerci.

Oppure avevo scelto quella data seguendo una volontà inconscia. Ma a volte, nella vita, una data chiave di lettura dei fatti è così evidente da riuscire inutile. È come se volessimo uscire da un dedalo seguendo un filo tangibile e finto.

Mi venne voglia di cercare le date di nascita dei personaggi pubblici (Licio Gelli, 21 aprile: da un romanzo di Pat Barker: Ada non aveva pazienza con i fiori, sempre lì a appassire e morire). Ma la traccia principale che seguivo, nel costruire e consultare il mio calendario magico, era quella dei compleanni degli amici. Il mio gioco era nato nella nostra combriccola privata. Fuori di lì, di solito era moneta falsa, come le banconote del Monopoli.

Al vecchio reazionario gli spettavano dei versi

Mi spinsi indietro fino al mio fratellino delle scuole elementari, un Renato con cui disegnavo furiose battaglie, e che finì poi nei servizi segreti: Io posso riconciliarmi con i lupi, con gli uomini no (Ingeborg Bachmann). Alla ragazza della prima cotta (aveva lo stesso compleanno di Pound), che mi aveva respinto, trovai assegnata una frase di Raymond Queneau: “Permette che continui la mia passeggiata? Piacere d’aver fatto la sua conoscenza.” Arrivai a compulsare il genetliaco del professor Simeone, nostro luminare di latino e greco, vecchio reazionario affascinato dal sogno imperiale. Gli spettavano dei versi di una poesia di Walter De la Mare, Napoleone: “Soldati, cos’è il mondo? Sono io…” Frasi perfette. Troppo perfette. Logico che paressero tali al postulante, che nella maggior parte dei casi era molto giovane, molto ghiotto di identificazioni (tanto più se circonfuse di un’aura “artistica”), facile da trarre in inganno… Ma allora io, il ciarlatano, avrei dovuto sorriderne. Invece no: ci credevo, in fondo. Credevo al mio stesso trucco! Forse perché tutte quelle voci erano nate come ritratto di me stesso? Negli altri, non vedevo altro che me?

I miei amici avevano capito una realtà che sfuggiva

A volte, la data era ancora vuota. Terry era così dispiaciuta che le promisi di mandarle la sua frase quando si fosse palesata. Elio, invece, alla fine venne accontentato. Gli toccarono due righe di De Gregori: Ha la faccia di uno che ha capito (e anche un principio di tristezza in fondo all’anima). A distanza di tempo mi pare una descrizione azzeccata, anche se il mio carissimo Elio si sarebbe meritato qualcosa di più profondo. L’altro grande amico del liceo, Filippo, si ritrovò con una frase di Valéry Larbaud: Sono tuttavia arrivato a questo: vedere il ridicolo, e capirlo tanto bene da non pensare più a riderne. Anche in questo caso, il responso sul momento mi parve sfocato (il senso dell’umorismo di Filippo era fuori discussione) ma oggi, dopo che la vita gli ha riservato tante prove, mi sembra centrare il punto. E comunque erano due frasi stranamente simili. I miei due grandi amici avevano capito una verità amara che a me sfuggiva.

Ma gli anni passavano, e intanto scoprivo che l’impresa era più impegnativa del previsto. A reperire un paio di frasi al mese, avrei finito il libretto a un’età da vecchio: trent’anni suonati! Ma non si trattava solo di questo. La verità è che rallentavo. La ragione divenne chiara nel giorno che avevo immaginato fin dall’inizio – il giorno di cui tutta quella coreografia di sentenze e aforismi non era che il fondale e le quinte. Il giorno della mia frase.

La data del mio compleanno

Fu qualche tempo dopo la morte di mio padre. Avevo una frase pronta, perciò aprii una pagina a caso ­– mi avvicinai a un giorno a caso – e la penna cadde sul mio compleanno. La sensazione era precisamente quella di quando, nello slancio di un passo, il piede non fa in tempo a ritrarsi da quello che mia madre chiamava il ricordino lasciato da un cane. Ma dovevo scrivere lì, e lì la scrissi. Io non posso far parte della generazione dei cocktail… Una canzoncina di Don McLean… Eppure diceva il vero. Non sarei mai stato quell’io mondano che volevo sembrare, e quel teatrino in cui avevo tanto amato recitare la mia parte di cartomante doveva chiudere. Ero un illusionista scacciato dalla sua illusione. Del resto vivevo all’estero e non avevo più tante occasioni di eseguire il mio numero. Morto Calvi e sciolta la P2 (‘82), morto Pesenti (’84), morto Sindona (’86), dall’Italia ora mi arrivavano, come dispacci dalla Fortezza Bastiani, le rivelazioni di Tangentopoli. Quando riempivo la casella di una data di nascita lungamente attesa, poteva sembrare anche quello un commento su ciò che accadeva nel mio paese: – Ciao Terry! Come va laggiù? – Eh, come va. Lo sai. E tu? – Io volevo dirti che… ora c’è una frase per te nel Libro dei Giorni. – Finalmente. Dimmela!

– È di Borges. Dice così: La soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero. Questo partecipa del soprannaturale e finanche del divino; la soluzione, del giuoco di prestigio.

– Hmm…

Ero me stesso

La frase era anche stavolta perfetta – Terry era un medico, ma sentiva con forza il fascino dell’irrazionale ­– eppure coglievo perfettamente anche la sua perplessità. Forse eravamo troppo adulti per rintracciare in ogni adagio solenne un segno del destino. Forse quel grimorio non funzionava più, era tornato a essere semplicemente una collezione di istantanee in cui lì per lì mi ero ritrovato. Non potevo essere tutti, la lingua straniera e il cibo esotico mi riconfermavano ogni giorno chi ero: me stesso. Ripresi a aggiungere voci, per una coazione a ripetere, ma stranamente non mi sembrava più di toccare nuove dimensioni dell’io, di aprire nuove strade; la somma era inferiore all’affollarsi degli addendi, la sentenza era soffocata dalle riprove. Al 14 dicembre copiai una frase di Yourcenar: In questa difformità, in questo disordine, percepisco la presenza di un individuo, ma si direbbe che sia stata sempre la forza delle circostanze a tracciarne il profilo; e le sue fattezze si confondono con quelle di un’immagine che si riflette sull’acqua. Lo volessi e no, mi stavo definendo. E ben presto lo spazio sarebbe finito.

E il mondo fini

E poi, dopo più di vent’anni, all’improvviso Il Mondo finì. Finì di pomeriggio, il mio Libro dei Giorni. L’ora giusta, in effetti. Ero oltre il mezzo del cammin di nostra vita. Ormai tornato in Italia – l’Italia di Berlusconi, un altro iscritto alla P2. Serpente che si morde la coda, cerchio chiuso. Però avevo un lavoro, un amore. Un’identità adulta.

Non ricordo quale fosse quell’ultima frase. Ricordo invece con chiarezza qualcosa di molto più memorabile: il senso di aver raggiunto e toccato un limite. Avrei continuato a leggere, a scrivere, naturalmente – ma qualcosa in me si era definito, lo volessi o no. Era questo che Elio e Filippo molti anni prima di me avevano capito? Era ancora vasto, il mondo, ma cinto da un muro di fuoco: era il mio mondo e aveva un confine, che ero io. Sono io. Ora che scrivo queste parole, posso confermarlo. Eppure mi accorgo anche, proprio ora, di una cosa. Il cerchio non è ancora chiuso. Il 1979 della mia agenda non era un anno bisestile. Il 29 febbraio, devo ancora scriverlo. Mi salverà da pianti e da dolori. Ma il prezzo è alto. È non scriverlo mai.

Tommaso Giartosio è stato finalista al Premio Strega 2024 con Autobiogrammatica (minimum fax), di cui questo racconto è uno spinoff.


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