Nell’epoca della frammentazione e della disintermediazione culturale forse è ancora possibile racchiudere i nuovi codici culturali e le loro declinazioni editoriali in una mappa. Non esaustiva, certo, ma comunque capace di orientare la navigazione nel mare agitato del web tra le onde lunghe delle polemiche online e una scena culturale in via di estinzione
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
“Disintermediazione”. Era la parola chiave di dieci anni, quando dal web è emersa una nuova scena culturale che non passava dai giornali cartacei né dalla televisione, ma da un pugno di magazine online che avevano l'ambizione di modificare i codici culturali.
Noi avevamo avuto l'ardire di farne una vera e propria “mappa” sulle pagine della rivista «Linus», insieme a Valerio Mattioli, che venne discussa per settimane. Sembrava che quelle firme emergenti, che all'epoca avevano tra i 25 ei 35 anni, dovessero arrembare la cultura mainstream, ma è andata davvero così?
Quel che è certo è che la scena è cambiata, disintermediandosi (apparentemente) ancora di più: le riviste contano sempre meno, perché tutto avviene sulle piattaforme. Gli intermediari, a dirla tutta, sono loro: Meta, Alphabet, ByteDance. A cosa assomiglierebbe, allora, una mappa oggi? La reintermediazione algoritmica ha prodotto un arcipelago culturale iper-frammentato, fatto di nicchie e micro-nicchie, con un turnover rapidissimo delle reputazioni. La stessa dimensione culturale si è spesso sciolta nel puro intrattenimento o nell'attivismo performativo.
Sarebbe assurdo, oggi, pensare di realizzare una cartografia esaustiva: sarebbe come voler mappare Internet, tipo quegli annuari che venivano stampati alla fine degli anni 1990.
Qui la nostra bussola impazzisce, come in Lost , e allora dobbiamo accontentarci di gettare a mare uno scandaglio, per misurare la profondità delle acque. In effetti le correnti sottomarine del web, i gorghi di polemiche virali e le improvvise onde anomale generate dal dibattito online eruttano con fragore nel dibattito mainstream e si riversano sugli scaffali delle librerie.
La storia finora
In dieci anni sono cambiate tante cose, a partire dai formati. Il 2015 ha segnato il trionfo del longform, quel tipo di articolo lunghissimo - e spesso sbrodolato - che è stato venduto agli inserzionisti come il non plus ultra, mentre la moda del 2025 è la newsletter.
Gli editori, che all'epoca correvano a contrattualizzare blogger e pagine facebook, ultime incarnazioni della cultura dello scritto, già da qualche anno preferiscono rivolgersi ai content creator che si esprimono attraverso reel Instagram, video YouTube e short di TikTok.
Nel 2015 c'erano ancora «Nazione Indiana» e «Carmilla», veterani della prima stagione dei blog, insidiati da «Minima&Moralia», «Doppiozero» e «Le Parole e le Cose». Ma il centro della scena era ormai occupato da «Vice», «Il Post» e «Rivista Studio», con ai margini «L'Indiscreto» e «Prismo»; menzione d'onore per il sito sportivo «L'Ultimo Uomo». «Vice» ha fatto la fine che tutti sanno, raccontata in un documentario disponibile su Mubi (Vice is Broken) ; mentre «Prismo» è assurto a mito fondatore per una generazione di autori oggi a cavallo dei quarant'anni.
In pochi anni fiorirono tanti competitor con l'idea di usare il contenuto per attirare gli inserzionisti: per capire il lato oscuro di quel mondo, rimandiamo all'amaro romanzo di Alice Valeria Oliveri, Una cosa stupida (Mondadori).
Che fine hanno fatto le firme emergenti di quegli anni? Spoiler: quasi nessuno è diventato mainstream nel senso in cui lo sono Mauro Corona o Massimo Cacciari. Per fortuna? Anche nomi seguitissimi come Francesco Costa e Cecilia Sala continuano a coltivare il proprio successo lontano dagli studi TV. Gli altri hanno trovato occupazione come autori dietro le quinte o, come Daniele Rielli e Davide Coppo, pubblicano romanzi per nicchie più o meno grandi. Delle pubblicazioni antologiche - a partire da The game unplugged per Einaudi e Non si può più dire nulla? per Utet - hanno dato visibilità ad alcune firme venute da quel mondo, tra le quali Pietro Minto o Jennifer Guerra, che avrebbero poi pubblicato libri per editori più importanti.
Inoltre, alcuni editori hanno tentato di portare al successo quella scena culturale: la prima fu Minimum Fax (all'epoca animata, tra gli altri, da Christian Raimo) seguita da Effequ e Nottetempo (oggi animata da un veterano della stagione dei blog, Alessandro Gazoia) che hanno pubblicato saggi molto discussi come quelli di Alessandro Lolli, Laura Tripaldi, Elisa Cuter, Gianluca Didino o Giulia Siviero.
Altre realtà come NERO, Luiss University Press e D Editore hanno mobilitato le menti di quella generazione per curare e tradurre testi importanti del dibattito internazionale, da Mark Fisher e Nick Land, o dedicarsi a grandi temi di geopolitica industriale come nel caso di Cesare Alemanni.
Oggi la rinnovata collana dei Maverick di Einaudi, sotto la guida di un altro veterano come Francesco Guglieri, si sforza di avvicinare al grande pubblico intellettuali esigenti come Valentina Tanni e Valerio Mattioli. Ma a riscattare presso il grande pubblico un'intera generazione ci ha dovuto pensare un comico: il geniale Valerio Lundini, che avevamo scoperto nel 2015 su Il Posto (parodia del Post) e ritroviamo un decennio più tardi in televisione, fino addirittura al palco di Sanremo.
Cosa resiste?
Cosa rimane delle riviste? Erede diretto di quella stagione, «Il Tascabile» di Treccani si è ritagliato la reputazione di sbocco ideale per le riflessioni dei dottorandi in discipline umanistiche. Ma il sito di riferimento di quel mondo è diventato «Lucy. Sulla cultura» diretto da Nicola Lagioia: anima progressista, molte firme note del mondo editoriale, e una serietà da inserto culturale. E poi «Snaporaz», titolo felliniano per la rivista interamente dedicata alla cultura per la cura di Filippo D'Angelo e di Gigi Simonetti.
«Rivista Studio» continua a presidiare i territori milanesi, forte di una fanbase desiderosa di conoscere quali sono i nuovi trend in ambito culturale, attenta all'hype ma con velleità di approfondimento. La rivalità con Roma sembrerebbe terminata, non c'è scambio né conflitto e a fare le battute sul Pigneto sono rimasti sono Christian Rocca e Guia Soncini de «Linkiesta» - ormai house organ di un partito di centro-sinistra/centro-destra che non esiste - e Andrea Minuz sul «Foglio».
Proprio «Il Foglio» di Claudio Cerasa, insieme al quotidiano che ci ospita «Domani», hanno cercato di assorbire un po' di firme della web-cultura di dieci anni fa, proponendo un ricambio generazionale i cui risultati sono ancora da decifrare.
Tra gli esperimenti più interessanti - anche perché il suo successo di nicchia lo rende sostenibile economicamente in modo del tutto indipendente - c'è «Iconografie del XXI secolo» di Mattia Salvia, un reduce dell'avventura di «Vice»: un account Instagram, una rivista cartacea, una newsletter, una collana di libri. All'insegna dell'incontro tra contenuti più leggeri e analisi molto accurate. Più istituzionale, «Pandora Rivista» fa dialogare i professori universitari con la società civile, organizzando anche eventi dal vivo molto seguiti nel suo feudo bolognese.
E la destra? Ha trovato in MOW, ovvero Man on Wheels, un sito quasi interamente dedicato alle provocazioni, mentre la vera battaglia per l'egemonia culturale per millennial e Gen Z è affidata alle testate del gruppo GOG, dall'Intellettuale dissidente a Blast.
Nuovi media, poche novità
La verità è semplicemente che le riviste sono morte per davvero, dopo avere giocato in questo decennio le loro ultime due carte per sopravvivere: il disperato opinionismo da clickbait e il ricorso a uno star system culturale sempre più periferico. “Il nuovo articolo di Raffaele Alberto Ventura”: beh, sticazzi. E allora il dibattito prosegue altrove.
Ci è voluto un po' di tempo ma adesso le newsletter sono hype. In principio fu Pietro Minto, con la sua «Link molto belli», che dura oramai da più di un decennio. Poi arrivò, per citare uno degli esperimenti più alti, «Medusa» di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi.
Oggi la piattaforma Substack è la nuova moda: da un lato preme la necessità di “uscire fuori dal gruppo”, coltivando bolle sempre più piccole ma fedeli, dall'altro il miraggio di una monetizzazione diretta, senza l'intermediazione di editori.
Anche Roberto Saviano si è spostato lì, ma l'unica che sta facendo grandi numeri con gli abbonamenti è Selvaggia Lucarelli (193mila follower, più di 12mila abbonati a 70 euro). Se il privato è sempre più politico oggi è il gossip a polarizzare le opinioni, alimentando un dibattito spesso innocuo, una volta si sarebbe detto “da bar”.
La rete è ovviamente il luogo in cui soggetti politici collettivi possono accorparsi. Vale per le minoranze etniche e religiose, quelle sessuali e ovviamente per il femminismo, anzi per i femminismi.
Se un punto di riferimento unico non esiste, soprattutto dopo il tracollo finanziario del furbesco progetto di Freeda, il luogo più vivace di riflessione femminile e femminista pare proprio essere il regno diffuso delle newsletter, un vero e proprio “safe space” dove fioriscono testimonianze e riflessioni. Tra le più mainstream si tiene a «ThePeriod» di Corinna di Cesare o a «Ghinea» di Gloria Baldoni, Francesca Massarenti e Marzia D'Amico, costola di un progetto di fanzine nato quasi vent'anni fa: la rivista Inutile.
Ma è forse uscito qualche nuovo nome interessante, qualcuna di quelle famose “firme da tenere d'occhio”, da Substack? Se anche fosse, l'abbondanza di contenuti non aiuterebbe a farla emergere.
Ma il mezzo non è il solo colpevole. La tendenza generale è sempre più conservativa: l'esplosione della bolla in tante bollicine ha fissato una comfort zone nel perimetro delle firme riconoscibili da apparizioni televisive, festival letterari e, naturalmente, podcast. Andrea Scanzi parla a migliaia di persone utilizzando una multipiattaforma che comprende carta stampata, podcast, libri, tv e Facebook. Imbattibile, fine dei giochi.
Il populismo dei like
O tempora, o mores. Prendersela con l'involuzione del dibattito online è come sparare sulla croce rossa. Qualche anno fa, il professore universitario Francesco Maria Tedesco ha attaccato i “Filosofinfluencer” che hanno usato Internet per fare divulgazione, mescolandola con l'opinionismo, come Maura Gancitano e Andrea Colamedici di Tlon o Rick DuFer - per citare quelli di maggiore successo.
Un successo che, in origine, deve molto più all'utilizzo del video che alla circolazione di contenuti scritti. Lo stesso vale per il divulgatore scientifico Barbascura X. Il trionfo del content writing è anche in questo. Nell'ambito della letteratura Young Adult (e non solo) non è raro vedere dei romanzi promossi evocando l'impressionante numero di follower dell'autrice o dell'autore, accumulati però facendo reel su Instagram.
Questo non è certo, o non necessariamente, un indice di cattiva qualità dei prodotti finali. Se guardiamo gli scaffali delle novità editoriali in questa fine d'anno, ormai nella saggistica vediamo nomi di attivisti e di studiosi che si sono fatti conoscere grazie ai social media, come la data giornalista Donata Columbro con il suo Perché contare i femminicidi è un atto politico (Feltrinelli) o Andrea Girolami con Rivoluzione creator (Il Mulino).
Per gli editori, si tratta di minimizzare il rischio facendo affidamento su delle fanbase già consolidate. Con il rischio di portarsi in casa anche le polemiche, come accaduto con Carlotta Vagnoli: autrice presso grandi editori come Einaudi, prima di finire su tutti i giornali come emblema degli eccessi (veri o presunti) del femminismo.
Se nel 2015 scrivevamo dell'esistenza di una new wave dell'opinionismo da terza pagina, ora possiamo dire con certezza che quella wave è morta, seppellita dal populismo dei like. La regola è semplice: più si alza la voce, più si attacca un nemico (vero o presunto) più visualizzazioni si fanno.
La credibilità è materia per rapper e trapper, l'opinionismo non ha regole, vince chi fa i numeri più alti: trasmissioni radiofoniche come La Zanzara, personaggi social come Cicalone, e quasi tutta la programmazione di Rete 4 hanno portato all'estremo ogni distopia berlusconiana. Se disegnassimo oggi una mappa del dibattito politico culturale in rete, al centro ci sarebbe un enorme cratere, come dopo un'esplosione nucleare.
Dal momento che il dibattito oggi è associato alle maxi-risse gridate dei talk show di Rete 4, va da sé che l'opinionismo culturale ha abbassato i toni, perdendo man mano la verve punk degli anni in cui, con molto ottimismo, nascevano riviste online e blog.
Dal pezzo Il problema della letteratura delle donne di Loredana Lipperini su «Lucy» a quello sul maschio perfomativo di Caterina De Biasio su «Rivista Studio», l'impressioni è che l'oggetto del discutere siano trend, spesso d'importazione, e operazioni di marketing culturale. Mentre i consumi (sempre culturali), soprattutto i libri, vengono recensiti come se fossero blurb promozionali: la stroncatura è scomparsa e questo è uno dei tanti segnali della crisi del lavoro culturale.
Il pensiero diffuso in un paese che vede crollare percentualmente le vendite dei libri ogni anno è: “Già siamo pochi, evitiamo di pestarci i piedi tra di noi, e soprattutto non facciamoci nemici”. Il rischio che corre il recensore è quello di venire tagliato fuori da una filiera sempre più corta: chi scrive un articolo magari sta scrivendo un libro che vorrà pubblicare con una casa editrice che lo potrebbe aver notato proprio per aver promosso i libri del suo catalogo, e magari vorrà chiedere una fascetta al tal scrittore, quindi guai a parlarne male. Queste disavventure sono raccontate con umorismo e cognizione di causa da Arnaldo Greco nel suo recente saggio E anche scrittore: come ci siamo messi tutti a scrivere (UTET).
La vita agrissima del freelance, già funestata dallo spettro dell'AI che potrebbe prendere il suo posto, è stata oggetto di un amaro redde rationem dopo un post pubblicato dallo scrittore Jonathan Bazzi che ha postato sui social uno screenshot del suo estratto conto bancario di fine ottobre, ovviamente in rosso: Bazzi ha denunciato compensi da fame, pagamenti ritardati per mesi, ha scritto che “la cultura è diventata un hobby per ricchi”. Ma l'elefante nella stanza sembra addormentato, l'angoscia e la delusione sono diventate sistemiche, non si intravedono all'orizzonte né rivoluzioni né margini di miglioramento. Quindi? Quindi Facebook.
Niente lieto fine
Chi l'avrebbe mai detto che il più boomer dei social network avrebbe avuto una seconda giovinezza, soprattutto per i profili della Generazione X e Millennial: solo scrollando i commenti, cercando di schivare i bot pirata, possiamo scovare frammenti della timeline di un dibattito politico e culturale, dall'ultimo album di Rosalia al cinema di Guadagnino fino a programmi tv, saggistica, romanzi.
Post sempre più lunghi e articolati, dei veri “pezzi” buttati lì gratis, a volte estratti di articoli pubblicati altrove, re-post di editoriali dei quotidiani che riprendono vita in feed senza fine. È qui forse che possiamo scoprire se non delle firme quantomeno dei profili interessanti. E li, ad esempio, che lo scrittore Vanni Santoni ha pubblicato una lista delle più interessanti riviste culturali online.
Sempre meglio comunque del flusso di parola dei podcast, sempre più strumento di distrazione di massa: «Tintoria» di Tinti e Rapone e «BSMT» di Gianluca Gazzoli - per quanto divertenti - lasciano in rete ore e ore di aneddotica di personaggi più o meno del mondo dello spettacolo e della cultura, una macchina del fumo sempre accesa nella pista da ballo dell'intrattenimento ormai svuotata di senso. Stesso discorso per l'informazione for dummies dei podcast di Will Media - per quanto istruttivi - che confezionano radio giornali per la Gen Z, sostituendo il punto di vista critico col fact check e i grafici analitici. Aridatece il tg di Tele Kabul!
La verità è che fare una mappa oggettiva è diventato impossibile. Nell'attuale frammentazione culturale, ogni mappa è semplicemente il punto di osservazione della persona che lo disegna. Vale anche per questa, che in fondo non è altro che un lungo elenco delle cose che contano per noi, o delle nostre idiosincrasie. E quindi di cosa abbiamo parlato in queste due pagine? Di noi, soltanto di noi, che la partita del ricambio generazionale l'abbiamo perso. Perché una scena culturale non esiste più
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