I quattro che predissero la fine del mondo è una storia ispirata al rapporto sui Limiti dello sviluppo. Racconta il momento in cui la spinta ambientalista è diventata irrimediabilmente tecnocratica
Mentre nelle sale cinematografiche furoreggiano I Fantastici Quattro della Marvel – uno dei migliori film di supereroi degli ultimi anni – in libreria sono arrivati i fantastici quattro dell’Apocalisse ecologica. I quattro che predissero la fine del mondo è il titolo del romanzo di Abel Quentin (edizioni e/o) che racconta la loro storia: quella di un gruppo di ricercatori che cinquant’anni fa avevano tentato di prevedere gli effetti sistemici del sovraconsumo di risorse nella società industriale, arrivando per primi alla conclusione che il nostro modello di sviluppo è condannato al collasso entro la metà del Ventunesimo secolo.
Ma che fare se al terribile annuncio il mondo resta sordo e la politica inerte? Attorno a questo interrogativo Quentin costruisce una trama che si dipana dagli anni Settanta a oggi.
Irradiati dai raggi cosmici durante una missione nello spazio, i supereroi di Stan Lee e Jack Kirby avevano acquisito poteri straordinari assieme a pesanti responsabilità; in modo non dissimile i quattro cavalieri dell’Apocalisse ecologica tornano dalla loro missione nel tempo (futuro) con un carico di tormenti che determina traiettorie di vita molto differenti, fino a quelle più estreme.
Tra verità e finzione
Il romanziere francese sembra voler dare ragione al suo collega Michel Houellebecq, che in Annientare aveva descritto l’ecologia politica come l’ideologia del radicalismo che viene. Ma è davvero così?
Quentin si è ispirato esplicitamente al rapporto sui Limiti dello sviluppo commissionato dal Club di Roma a Donella e Dennis Meadows, Jørgen Randers e William Behrens, pubblicato nel 1973 con ampia eco mediatica. Un rapporto pieno di previsioni sbagliate – gli scenari catastrofici non si sono verificati nei tempi previsti – ma esatto nella sostanza: la crescita illimitata in un pianeta finito porta inevitabilmente a tensioni ecologiche, economiche e sociali. Questa amara verità era stata intuita senza bisogno di calcolatori elettronici almeno fin dall’Ottocento, quando William Stanley Jevons si preoccupava dell’esaurimento delle energie fossili (The Coal Question, 1865).
Quentin preferisce trasfigurare la realtà storica in una storia di finzione, che ha come protagonisti dei personaggi immaginari, prendendo il rischio di “inquinare” la nostra memoria con un sacco di informazioni superflue o leggermente imprecise. Se i coniugi Meadows sono resi abbastanza fedelmente ma restano sullo sfondo, la trama si concentra sui destini totalmente immaginari del francese Paul Quérillot e (soprattutto) del norvegese Johannes Gudsonn.
Destini speculari, poiché il primo sceglie di prostituirsi all’industria petrolifera per avidità e rassegnazione, mentre il secondo si radicalizza nel proprio impegno ecologista. Le origini nazionali non mentono: Quérillot sembra uscito da un romanzo di Balzac, mentre Gudsonn è il classico eroe ibseniano. Ma il vero conflitto messo in scena nel romanzo è ancora un altro, ben più profondo, ovvero quello tra due visioni dell’ecologia politica: quella riformista contro quella radicale.
Due visioni dell’ecologia
In effetti il rapporto del Club di Roma, proprio come il suo doppio romanzesco, fu un puro prodotto della visione tecnocratica della sua epoca. La sua genesi vedeva coinvolte due delle più grandi burocrazie dell’epoca: il Massachussetts Institute of Technology e l’Ocse, come ha ben raccontato lo storico Matthias Schmelzer nel suo The Hegemony of Growth: The OECD and the Making of the Economic Growth Paradigm.
Il rapporto nasceva da un’illusione bella e buona, ovvero che gli strumenti di calcolo fossero in grado di combinare tutte le variabili (demografiche, economiche, energetiche, climatiche ecc.) per fornire una previsione del futuro, un po’ come nella Fondazione di Asimov.
Da lì, gli scienziati avrebbero inoltre potuto indicare delle misure per contrastare le tendenze in atto, imponendo alla popolazione delle misure di regolazione: controllo delle nascite, razionamento delle risorse, limiti alla produzione industriale, restrizioni ai consumi energetici, riconversione forzata dei sistemi agricoli e vincoli severi alle politiche economiche nazionali. Insomma come ogni volta nella storia umana si sarebbe dovuto rispondere al collasso della modernizzazione con un surplus di modernizzazione, razionalizzando la vita e delegando sempre di più alla classe dei razionalizzatori, armati dei loro potentissimi computer.
Ma c’è una diversa visione dell’ecologia, radicalmente altra. Questa è incarnata, nel romanzo di Quentin, dalla figura aleggiante di Theodor Kaczynski in arte Unabomber. Kaczynski non vuole mandare al potere gli scienziati per salvarci dal collasso, ma salvarci dal collasso liberandoci dagli scienziati e pure dai loro rapporti sui limiti dello sviluppo. Non si tratta di regolare il capitalismo e rendere più sostenibile la società industriale, ma di tornare al mondo premoderno, andando a vivere… in una capanna. Cabane, infatti, è il titolo originale dei Quattro che predissero la fine del mondo. Un occhiolino alla scena anarcoprimitivista che ha fatto della capanna uno dei propri simboli.
Quale strada prenderà l’ecologia politica del futuro? I movimenti ecologisti di maggiore successo dell’ultimo decennio - Extinction Rebellion, Soulèvements de la terre… - sono tutt’altro che primitivisti o luddisti. Spesso le loro azioni si concentrano su specifiche infrastrutture particolarmente invasive, offrendosi come veri e propri regolatori del rischio. Tentano, in generale, di conciliare l’ecologia con il benessere sociale in senso ampio: lavoro, consumo, riconoscimento, e da qui tutte le battaglie post-coloniali e trans-femministe. La loro vocazione consiste, insomma, nel conservare le esternalità positive della modernità e combattere quelle negative, individuando un punto ideale di sostenibilità.
L’ecologia politica e il suo futuro
Per via di questo loro attaccamento ai valori della modernità è difficile scindere questi movimenti apparentemente radicali dall’immaginario tecnocratico che li anima. Gli argomenti sventolati dai militanti, provenienti in maggioranza dalla classe media istruita, sono precisamente quelli di una expertise tecnica inascoltata - dalla climatologia alla termodinamica passando dall’ornitologia.
La scelta dell'azione diretta, da parte dei più radicali, discende dalla constatazione del fallimento conclamato delle istituzioni democratiche capitalistiche nel gestire le esternalità dell'industrialismo, come predicava il Movimento Tecnocratico d’inizio Novecento inneggiando al Soviet degli ingegneri.
L’azione diretta appare così come lo sfogo di una expertise inascoltata e frustrata. Attraverso i loro tentativi di enforcement aggressivo della soluzione tecnica più efficiente sul piano della sostenibilità, i movimenti ecologisti appaiono come il braccio armato della classe dei tecnici, la milizia informale di quel dominio manageriale descritto con orrore dai filosofi della Scuola di Francoforte e dai libertari degli anni 1960.
Ma abbiamo un’alternativa? Probabilmente no. There is no alternative al Realismo Ecologista, che in fondo è soltanto un altro nome del Realismo Capitalista, l’ennesimo passo nella corsa alla razionalizzazione futura resa necessaria dalle esternalità della razionalizzazione passata, in un loop infinito. Che però è finito: perché il collasso prima o poi arriva, come sapevano i quattro che predissero la fine del mondo.
Per questo è così difficile convincere la popolazione ad ascoltare la voce di una razionalità tecnica che ha già combinato fin troppi pasticci. Il disinteresse dell'opinione pubblica tormenta i personaggi del romanzo di Quentin; ma in fondo perché mai, oggi come ieri, qualcuno dovrebbe dare retta agli ennesimi razionalizzatori? Percepite come organiche al dispotismo tutelare del Green New Deal, le istanze ecologiste vengono osteggiate da una classe media che non solo non vuole rinunciare al proprio benessere, ma soprattutto non vuole rinunciare a essere libera. Se così stanno le cose, di fronte all'impasse ambientale resta una sola soluzione: sperare che a salvarci dal collasso siano i Fantastici Quattro della Marvel.
I quattro che predissero la fine del mondo (e/o 2025, pp. 464, euro 19,50) è un romanzo di Abel Quentin
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