Per fare un uomo ci voglion vent’anni, cantavano i Nomadi. Vent’anni è il momento in cui si esce di casa, ci si fa individui, ci si stacca dalla famiglia per farsi un’idea di mondo propria. Altri venti ce ne vogliono per essere capaci di tornare a casa, sedersi accanto ai propri genitori e sapere allo stesso tempo essere adulti ed essere figli.

Tempo di ritorno è il titolo del romanzo di Ferdinando Cotugno uscito pochi giorni fa per Guanda: in statistica è il tempo che intercorre fra due eventi estremi – fra un uragano e l’altro, fra una siccità e l’altra. Qui il tempo di ritorno sono anche i vent’anni che passano da quando si esce di casa a quando si è adulti abbastanza da ritornarci, questa volta per farsi raccontare da dove si viene, ricucirsi nella propria storia famigliare e così poter generare a nostra volta, trovando le parole per le storie nuove di cui abbiamo disperatamente bisogno.

Una storia, tante storie

Tempo di ritorno racconta la crisi climatica attraverso una famiglia, la famiglia Cotugno, una città, Napoli, e un quartiere, Bagnoli, con la sua gigantesca acciaieria che per anni ha nutrito, avvelenato e poi, dismessa, abbandonato i suoi abitanti. A questo nucleo si collegano moltissime altre storie che assieme fanno l’Antropocene. Tutte le storie famigliari sono storie di clima. E soprattutto tutte le storie di clima sono storie personali e famigliari.

Ognuno ha la propria, se ci guardiamo indietro possiamo ricostruire la nostra, è un modo per non sentirci sradicati, ritrovarci pezzo di un discorso più grande e avvicinarci alle storie che ci sembrano più lontane nello spazio e nel tempo per imparare a curarcene, perché ci curiamo solo di ciò che sentiamo vicino.

Correlazioni invisibili 

Interrogando la vita dei suoi genitori e nonni, Cotugno va a cercare le tracce, le voci e le conseguenze del capitalismo fossile. Accarezza delicatamente la fatica, la sofferenza, i disinganni. Li fa parlare, gli resta vicino, li porta in una storia più grande. «Quante correlazioni invisibili esistono», si chiede, «tra le cause del riscaldamento globale e tutto ciò che ci uccide, aumenta il reddito per una o più generazioni, ma priva l’esistenza di senso, riempiendola di una nostalgia impossibile da elaborare? Se almeno distruggere questo pianeta ci avesse reso felici. Siamo stati carnefici climatici, e non siamo stati nemmeno carnefici felici».

Il nonno Ferdinando lavorava all’Italsider di Bagnoli: di quella fabbrica e del suo altoforno è vissuto ed è morto. Suo padre Luigi è cresciuto sentendosi figlio dell’Italsider, ne è stato tradito, è diventato camionista. «Erano uomini di fonti fossili e secoli diversi, mio nonno l’era del carbone, mio padre l’era del gasolio. Il carbone ti faceva operaio, il gasolio ti spalancava mondi impensabili, poteva farti uomo d’affari»: il fossile ha dato da mangiare al nonno, per un certo tempo ha liberato Luigi della classe sociale da cui veniva, di sicuro ha permesso a lui, Ferdinando, di studiare e diventare il giornalista che è.

Dall’altra parte c’è sua madre Giuseppina, che veniva dalla miseria della campagna ma era andata all’università, leggeva Gramsci, sognava «il dottorato, la rivoluzione, o entrambe le cose, ma il gasolio aveva altri piani»: si era innamorata di Luigi, gli aveva costruito un lavoro e in quel lavoro entrambi si erano persi.

«Vorrei chiederlo a mio padre e mia madre: quanto vi ha reso tristi la servitù così radicale alle leggi del gasolio, che erano le leggi del capitalismo: più veloce, più grande, più intenso, poco sonno, cortisolo e sigarette, impazzire e investire».

Si siede accanto a loro e, da adulto capace di essere figlio, chiede, ascolta. Ascoltare qui è un atto di cucitura, perché per stare nel presente e immaginare il futuro non ci si può disfare del passato: «Non possiamo pensare di cambiare le fondamenta del mondo senza avere una buona storia e delle risposte per chi vive aggrappato a quelle fondamenta».

Affetto per i dettagli 

La crisi climatica è una storia di fratture e di lontananze. Generazioni, specie, classi sociali che si allontanano fra loro come si fosse sciolto un nodo e scivolassero via, alla deriva. Tempo di ritorno è un lavoro di ricomposizione. Al centro c’è Ferdinando che si siede ad ascoltare e ascoltando tira i fili delle generazioni fino a portarli a sé e poterli toccare.

E con questo movimento tira anche tutti gli altri, i fili delle classi sociali, i fili di Napoli, i fili del mare e della terra e i fili di altri luoghi, tempi, persone, i fili di tante altre storie del mondo per farsele più vicine. Ci si trova accanto a una parlamentare gallese di cinquantasei anni che viaggia in Antartide e alla comunità di Nuvoleto in Emilia-Romagna dopo le alluvioni del 2023. È un romanzo che parla di un padre, di una madre, di un figlio e poi di tutto il resto, del mondo come di una gigantesca famiglia allargata.

Fra i tantissimi personaggi secondari che costellano Tempo di ritorno c’è Harboje Lukatela, ingegnere croato fissato con la misurazione delle distanze e appassionato di luoghi remoti, l’uomo per cui «l’unica domanda sensata» era «quanto lontano potresti trovarti da chiunque altro tu conosca?».

La voce di Ferdinando Cotugno invece è la voce della vicinanza. Una voce che assomiglia a una strada in cui si può andare avanti ma anche tornare indietro o uscire dalla carreggiata, una voce in cui si cammina piano perché è piena e densa di particolari, di suoni, di odori, ci si soffermerebbe su ognuno, come alberi di una foresta o palazzi di una città.

Percorrendola risuonano due titoli che a prima vista non c’entrano nulla: Molto forte, incredibilmente vicino, di Safran Foer e Che tu sia per me il coltello, di David Grossman. Romanzi fatti di viscere e delicatezza, di vicinanza, di forme diverse ma intense e umide di amore.

Le parole di Cotugno sono sempre parole forti e vicine, come se mentre scrive provasse affetto per ogni dettaglio, anche il più remoto, anche per l’ingegnere croato Harboje Lukatela o il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici delle Isole Marshall. Tempo di ritorno è una lettera d’amore a ciascun personaggio, a ciascun lettore, e prima di tutto a sua madre e suo padre. Lo sguardo che si posa su di loro assomiglia al coltello di Grossman, scosta la pelle fino a mostrarli (e a mostrarsi) senza più nessuna scorza, in una vulnerabilità quasi impudica.

Di suo padre osserva i silenzi, «posti degni di essere abitati», o il suo camminare guardandosi i piedi «per essere sicuro che siano ancora lì, mormorando strati su strati di rimpianti». Intanto la madre si siede a terra nella casa ora abbandonata in cui è cresciuta e parla con i suoi morti. Le sconfitte, gli errori, i rimpianti, i gesti impacciati, le incertezze: tutto viene alla luce, non ci si sa nascondere davanti a uno sguardo che guarda, ci si sente nudi, imbarazzati e soprattutto liberi.

La voce di Cotugno è questo, uno sguardo caldo e vicino che non lascia scampo, guarda e si guarda. E togliendo tutte le corazze, ricuce tutte le storie e le umanità alla deriva: i figli ancorati alla terra della crisi climatica ai genitori vissuti nell’euforia del fuoco e del fossile; questo giorno del 2025 a un giorno degli anni Venti del Novecento; noi alle generazioni future, alle isole Marshall, agli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale.

Le cose che importano 

In questo atto di ricongiungimento c’è la possibilità di ritrovarsi ad abitare un’unica casa con il passato, con i presenti remoti e persino con il futuro. La risposta alla domanda di Lukatela, alla fine, è che tutto si tocca. Che la distanza fra noi e il luogo più remoto del tempo e dello spazio si può sempre colmare, perché la vicinanza è un esercizio, una pratica. Ed è la pratica estremamente sentimentale dell’ecologia, dove noi, nostro nonno, nostra nipote, le isole Marshall e un ingegnere croato abitiamo tutti la stessa casa.

Ecologia è la scienza della casa, ossia delle cose che importano, di tutte quelle che sentiamo vicine, è la scienza della vicinanza, e Tempo di ritorno è proprio questo, il romanzo della vicinanza.


Tempo di ritorno: una storia di clima e di fantasmi (Guanda 2025, pp. 272, euro 18) è un libro del giornalista Ferdinando Cotugno 

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