«Everybody loves restaurants, even assholes», dice Carmy Berzatto al fratello Mickey nella primissima scena della quarta stagione di The Bear (disponibile ora su Disney+).

Anche noi potremmo dire in effetti: «Tutti amano The Bear, anche gli stronzi».

Fino alla terza stagione compresa, però. Perché dopo accade quello che accade sempre con le serie tv che si trascinano troppo, anno dopo anno: i personaggi che prima erano dei completi incapaci adesso migliorano. Loro hanno voglia di parlare dei loro traumi e noi ci annoiamo e abbiamo solo voglia, invece, di passare ad altro.

E ci sentiamo anche cattivi ad annoiarci, perché in realtà è bello veder crescere un essere umano, per quanto inventato, ma è pure vero che se avessi voluto fare i conti col passato di qualcuno forse avrei sbloccato il mio smartphone da quattro soldi e avrei scritto agli amici stronzi che mi hanno ghostata al liceo, all’università, dopo l’università (sono pur sempre una millennial, le chiamate non riesco a farle); o avrei telefonato (a lei sì, perché non ha Whatsapp) alla mia collega nell’ultima scuola in cui ho lavorato per mandarla a quel paese e ricordarle che non è obbligata a insegnare se odia i ragazzi delle medie. Insomma, forse non avrei perso circa dieci ore della mia vita per vedere Carmy Berzatto che capisce che la cucina (DA QUI IN POI SPOILER GROSSO COME UNA CASA) non lo appassiona più tanto. Che era tutta una copertura.

La noia

Proprio così. In questa quarta stagione il piccolo Bear (Jeremy Allen White) capisce che la sua passione era un po’ una montatura: un modo per non affrontare la vita, la morte, cioè sua madre – grande rimosso delle prime stagioni tanto quanto ora, invece, è l’unica persona per cui scopre di voler cucinare.

Insomma, proprio come noi, che ci siamo appassionati al suo ristorante, alle sue ricette, alla sua famiglia ma l’abbiamo fatto solo perché urlavano tutti ed erano sempre infelici, incazzati, insoddisfatti, e si parlavano addosso e non si capivano mai e si rinchiudevano nelle celle frigorifere e poi si mandavano a quel paese e noi lì a pregare che continuassero ancora con quel ritmo e quel caos che erano così il contrario di quei piatti puliti, sofisticati, che invece riuscivano a completare… e invece ora ci troviamo di fronte a un ristorante noioso, piatti noiosi, personaggi risolti e conflitti evaporati. Non sappiamo più dov’è finita quella passione per gli chef del ristorante The Bear perché ad averci appassionato non erano loro, ma le loro scelte stupide.

Va bene: siamo mediocri come tutti, ci piacciono le sfighe degli altri e non siamo felici quando smettono di stare male: e con questo? Il problema della quarta stagione di The Bear, però, non è solo la noia: è anche che, come dire, l’avevamo capito già tutti dove sarebbe andata a parare.

Non solo perché l’altra chef della serie, la bravissima Sydney Adamu (Ayo Edebiri), da un po’ di puntate aveva iniziato a indossare vestiti sempre più belli (voglio dire: alcuni veramente belli); o perché sa fare tutto in cucina, dentro la sua testa e dentro quella incasinatissima dei Berzatto & co.

Ma anche perché pure noi funzioniamo così. Persino noi sappiamo già che i nostri sogni, le nostre passioni nella vita di tutti i giorni sono una costruzione: una fortificazione a volte, più o meno blindata, che abbiamo tirato su con muri a secco e sputo e paure giorno dopo giorno per andarcene di casa (metaforicamente e non), e va bene così.

Va benissimo così, anzi. I nostri sogni sono una scusa per crederci migliori della casa da cui veniamo: non è proprio questo il motivo per cui continuiamo a svegliarci la mattina? Progredire, imbrogliarci, non farci da parte nemmeno quando capiamo che non sappiamo chi siamo, e che poteva essere la cucina come qualsiasi altra cosa ma noi, comunque, non saremmo potuti mai e poi mai rimanere nella casa in cui siamo cresciuti senza l’illusione di meritarci di fuggire.

Sogni e incubi 

E allora, che senso ha rinunciare proprio ora che l’abbiamo capito? Dovremmo premiarci, invece. Rilanciare.

Nella prima puntata di questa ultima – si spera – stagione, Carmy si sveglia all’improvviso e quando apre gli occhi alla tv danno il film Groundhog Day. Precisamente la scena in cui Phil Connors (Bill Murray) sente le sveglia, sono le sei di mattina e già sa che tutti i giorni a seguire saranno in realtà sempre lo stesso: il 2 febbraio, il giorno della marmotta.

«Cosa faresti se ti svegliassi e, qualunque cosa tu faccia, tutti i giorni fossero uguali?», si chiede l’attore nel film, ma fin da quei primissimi fotogrammi ce lo chiediamo pure noi. In un certo senso, lo subodoriamo: il sogno di Carmy sta diventando il suo, il nostro incubo; le nuove puntate di The Bear saranno veramente tutte uguali.

L’ingrediente che non c’è 

Se volessi riassumere ciò che manca a The Bear direi che è qualcosa che aleggia sopra ogni scena come un fantasma shakespeariano che nessuno riesce (o vuole) ascoltare. È lo stesso che manca ai messaggi che Carmy continua a scrivere nella chat con il fratello morto: messaggi che non hanno mai risposta, e che in fondo sono diretti anche a noi. A mancare, paradossalmente, è un sapore vero, da stella Michelin. Non il gusto in sé, ma quella scintilla che ti ricorda dov’eri, dove volevi andare e dove non vorresti mai tornare: e dove invece, masochisticamente, Carmy decide di rinchiudersi ancora.

La quarta stagione di The Bear è una regressione sciocca e fastidiosa nel ventre di una madre che chiede scusa (e ci mancherebbe). Ciò che manca è il coraggio di andare avanti. Una prova che i giorni non sono tutti uguali e che i sogni  – anche se imperfetti, ingannevoli, costruiti apposta per farci inciampare –valgono ancora qualcosa. E su questa consapevolezza nessuno di solito fa quattro stagioni.

Di solito (e, se capita, capita più o meno all’altezza della terza stagione), gli amici che non ti hanno ghostato nel frattempo ti danno una pacca sulla spalla e ti dicono «Va bene così, piccolo Bear: fingiamo tutti che i sogni non siano in fondo degli alibi, ma a volte è proprio questo che ci rende interessanti. E soprattutto, aggiungi ancora aglio alla tua salsa e chi se ne frega se poi ci puzza l’alito».

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